Dopo un primo anno di carattere interlocutorio, in sostanziale continuità con le politiche del governo precedente, la linea di politica fiscale del governo Meloni ha preso forma con la Nota di aggiornamento al Documento di Economia e finanza (Nadef) del settembre 2023, che ha indicato il quadro entro il quale è stata poi costruita la legge di Bilancio per il 2024. Tale quadro ha potuto beneficiare di alcuni fattori favorevoli, tra i quali spicca la decisione di Eurostat di contabilizzare i crediti di imposta edilizi nell’anno in cui tali crediti si formano invece che in quello di godimento della detrazione fiscale, con l’effetto di peggiorare significativamente il saldo di bilancio negli anni 2021 e 2022, già trascorsi, e di migliorare le previsioni per gli anni successivi.

Anche per il venir meno delle misure, quantitativamente molto rilevanti ma temporanee, introdotte per fronteggiare il caro energia, il governo si è trovato così ad amministrare una traiettoria che prevedeva già in termini tendenziali, cioè senza aggiustamenti, un rientro del disavanzo e il raggiungimento di un deficit pari al 3% nell’arco del successivo triennio.

La dimensione contenuta degli interventi correttivi necessari rischia tuttavia di mettere in ombra la profondità dei cambiamenti nella struttura del bilancio pubblico e nella composizione della spesa intervenuti nel corso degli ultimi due anni. A questo riguardo hanno pesato in modo significativo due elementi: il ruolo assunto dal Pnrr e l’aumento dell’inflazione.

Relativamente al Pnrr, va tenuto presente che gli oltre 190 miliardi di risorse assorbite dal programma non incidono tutti allo stesso modo sui saldi del bilancio. Di tali spese, una parte sarebbe stata comunque realizzata e una parte, quella finanziata da trasferimenti dalla Ue, non ha effetti sul deficit in quanto è pienamente coperta da entrate aggiuntive. Diverso è il caso della quota del Pnrr rappresentata da spese aggiuntive finanziate in deficit, sia pure con prestiti dalla Ue: tali spese, che sono state progressivamente posticipate per via dei ritardi di realizzazione e ammontano nell’intero periodo di attuazione a 56 miliardi di euro, graveranno sul bilancio del triennio 2024-2026 per oltre 15 miliardi l’anno.

Il secondo elemento è rappresentato dall’inflazione. In risposta al suo aumento, la Bce ha operato una serie di interventi sui tassi di interesse, con effetti sulla spesa pubblica per interessi sul debito: se fino al 2021 tale voce aveva oscillato intorno ai 65 miliardi all’anno, secondo le ipotesi della Nadef essa dovrebbe superare i 100 miliardi nel 2026.

L’aumento dell’inflazione ha determinato tuttavia un altro effetto, questa volta positivo, sui saldi di finanza pubblica: l’aumento dei prezzi, e quindi delle basi imponibili delle maggiori imposte, ha comportato un corrispondente aumento delle entrate; viceversa, per la maggior parte delle spese «a legislazione vigente» l’adeguamento agli aumenti dei prezzi necessita di interventi legislativi che normalmente si realizzano, quando si realizzano, solo con un certo ritardo. Dall’inflazione è derivato dunque un miglioramento spontaneo dei saldi di finanza pubblica nel 2022 e 2023, la cui contropartita sta ovviamente nel fatto che la spesa si è ridotta in termini reali. Senza entrare nel dettaglio delle diverse voci, è sufficiente ricordare che, nel quadro tendenziale della Nadef di settembre 2023, la spesa primaria corrente è attesa scendere dal 42,9% del Pil del 2023 al 40,3 nel 2026.

Dall’inflazione è derivato un miglioramento spontaneo dei saldi di finanza pubblica nel 2022 e 2023, la cui contropartita sta ovviamente nel fatto che la spesa si è ridotta in termini reali

Nel quadro descritto, un governo che avesse come priorità quella di mantenere un livello adeguato di prestazioni nei servizi essenziali, a cominciare da scuola e sanità, dovrebbe destinare risorse aggiuntive in sede di programmazione di bilancio a fronte dell’aumento dei prezzi. L’iniziativa del governo su questo fronte si presenta tuttavia debole, indicando la scelta di accettare l’erosione dei livelli della spesa pubblica in termini reali. Le risorse stanziate per rifinanziare la spesa sono limitate: 3 e 5 miliardi rispettivamente nel 2024 e nel 2025 per il rinnovo dei contratti nel pubblico impiego e 2,5 miliardi all’anno per la sanità, importi insufficienti a recuperare l’arretramento della spesa sanitaria.

Quali dunque le priorità del governo Meloni? Nella manovra risaltano in particolare due interventi che assorbono lo spazio fiscale disponibile: la conferma per un altro anno della riduzione del cuneo contributivo e un primo intervento di attuazione della riforma fiscale, relativo all’Irpef e alla deducibilità dei costi dal reddito di impresa (ai fini Ires e Irpef).

Al primo intervento, una misura che punta ad aumentare il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti con reddito inferiore ai 35 mila euro (e in particolare delle donne lavoratrici con più di un figlio), la legge di Bilancio destina quasi 10 miliardi.

Per quanto riguarda la riforma fiscale, dal 2024 è previsto l’accorpamento delle aliquote dei primi due scaglioni Irpef (del 23 e 25%) in un’aliquota unica del 23%. L’intervento ha impatto limitato sulla progressività dell’imposta, ma, riguardando la quasi totalità dei contribuenti Irpef, comporta comunque un costo significativo, che il governo ha quantificato in 4,3 miliardi nel 2024.

È rilevante il fatto che non solo la riduzione del cuneo, ma anche la riforma fiscale, sia stata finanziata soltanto per il 2024. Il governo non ha cioè individuato le risorse necessarie a dare a tali interventi un carattere permanente. Non volendo o non potendo trovare risorse sufficienti, la scelta è stata quella di varare comunque questa prima tranche di interventi, rinviando a un momento successivo il problema del loro finanziamento a lungo termine. La conferma del pacchetto di riforme avviate, interventi di dimensione significativa che rappresentano un pilastro centrale degli impegni elettorali dell’attuale maggioranza, richiede dunque coperture aggiuntive dell’ordine dei 10-15 miliardi nel 2025 e nel 2026. Per comprendere gli sviluppi futuri della politica fiscale del governo è dunque decisivo capire quali spazi di correzione in senso espansivo siano consentiti dai vincoli posti a livello europeo dalla riattivazione del Patto di stabilità e crescita, dopo la sospensione dovuta all’attivazione nella primavera 2020 della clausola di salvaguardia generale.

Nel suo parere sul Documento programmatico di bilancio (Dpb) dello scorso novembre, la Commissione europea ha ritenuto la manovra per il 2024-26 non pienamente in linea con le raccomandazioni country specific formulate nel Consiglio dell’Ue del luglio 2023. Vengono rilevati in particolare due elementi di divergenza rispetto a tali raccomandazioni: a) un livello di spesa per il 2024 superiore nella misura dello 0,6% del Pil rispetto al valore obiettivo indicato; b) il mancato utilizzo dei risparmi derivanti dalla progressiva eliminazione dei sostegni relativi all’energia per finanziare una riduzione del disavanzo pubblico. La Commissione rileva anche «progressi limitati» nell’adempimento della parte delle raccomandazioni relativa ai nodi strutturali (in primo luogo l’efficienza del sistema fiscale). Viene dunque adombrata la possibilità che l’Italia sia chiamata ad adottare nel 2024 misure atte a riallineare le politica di bilancio con le indicazioni di Bruxelles.

In vista del ritorno ai vincoli del Patto di stabilità, nella sua comunicazione del maggio 2023 la Commissione aveva rinviato alla primavera 2024 una decisione sull’apertura di una procedura per disavanzo eccessivo (Pde) per i Paesi che, sulla base dei risultati del 2023, non avessero soddisfatto il criterio del deficit, ovvero il limite del 3% all’indebitamento netto.

I saldi previsti dalla manovra del governo comportano un rischio molto concreto che l’Italia sia giudicata inadempiente

I saldi previsti dalla manovra del governo comportano dunque un rischio molto concreto che l’Italia sia giudicata inadempiente e assoggettata al cosiddetto «braccio correttivo» del Patto di stabilità e crescita. Quali implicazioni avrebbe tale decisione?

In base alle nuove regole approvate dal Consiglio dell’Ue poco prima di Natale, i Paesi nel «braccio correttivo» saranno tenuti a rispettare un piano di convergenza («piano fiscale-strutturale di medio termine») che prevede una riduzione del deficit nella misura minima annua dello 0,5% in termini strutturali. Se da un lato questo obiettivo appare coerente con i saldi definiti per il prossimo triennio dalla legge di bilancio approvata, che potrebbero in astratto garantire l’uscita dell’Italia dal «braccio correttivo» nel 2026 senza necessità di attuare ulteriori aggiustamenti, appare d’altra parte chiaro, in base a quanto abbiamo rilevato in precedenza, che tali saldi dovranno essere quasi certamente rivisti negli anni a venire.

Da questo punto di vista diventa rilevante quanto previsto in via transitoria come esito della lunga negoziazione che ha portato al varo del nuovo Patto di stabilità: nel compromesso raggiunto con i Paesi «rigoristi» il fronte «flessibilista» ha ottenuto che, limitatamente al triennio 2025-27, il sentiero di riduzione del deficit strutturale possa essere corretto, in senso meno restrittivo, per tenere conto dell’aumento della spesa per interessi sul debito. Misura e modalità con cui si potrà tenere conto di questo effetto non sono indicate in modo chiaro nel testo e saranno presumibilmente oggetto di negoziazione negli anni a venire. È comunque probabile un avvicinamento più graduale all’obiettivo del 3%, tale da lasciare al governo un maggiore spazio per il perseguimento dei suoi obiettivi di politica fiscale.

I partiti di governo non nascondono d’altra parte la speranza che, a seguito di un possibile cambiamento dei rapporti di forza nel Parlamento europeo nelle elezioni del prossimo giugno, possa derivare un diverso approccio al rapporto tra Stati nazionali e istituzioni comunitarie, che potrebbe consentire un margine di manovra ancora maggiore in campo fiscale.