La strage del mare a Cutro e le successive mosse del governo Meloni stanno confermando come il tema altamente simbolico degli arrivi dal mare sia il terreno scelto dalle forze oggi al potere per marcare la propria identità politica e comunicare agli elettori un messaggio di coerenza con le proprie promesse elettorali: una coerenza difficilmente rintracciabile su altri dossier.
Due sono le premesse più volte ribadite, ma entrambe infondate. La prima è la leggenda dell’Italia “campo profughi d’Europa”. I dati Eurostat raccontano un’altra storia: nel 2022 la Germania ha ricevuto 218 mila richieste d’asilo, la Francia 137 mila, la Spagna 116 mila, l’Italia 77 mila. I richiedenti asilo non arrivano soltanto dal mare, ma entrano con mezzi e modalità diverse, da svariati punti d’ingresso.
La seconda premessa è quella di definire gli arrivi “un’emergenza senza precedenti”. La premier specula sulla poca memoria dell’opinione pubblica e sulla paura nei confronti degli arrivi indesiderati. Dopo avere chiesto più volte le dimissioni della ministra Lamorgese sotto i precedenti governi, perché colpevole di non fermare gli sbarchi e dopo avere criminalizzato le Ong (responsabili l’anno scorso del 12% scarso degli sbarchi in Italia), deve fare i conti con arrivi dal mare triplicati in questo primo scorcio dell’anno e con le Ong quasi del tutto allontanate dalle zone operative. In realtà, però, nel 2015 e 2016 nell’Ue le richieste di asilo avevano superato il milione, a causa soprattutto della guerra in Siria, e anche in Italia gli sbarchi avevano sfiorato quota 200 mila all’anno.
La principale novità dell’approccio governativo è l’ammissione a denti stretti dell’esigenza d’incrementare gli ingressi per lavoro, dopo anni di esecrazione dei “migranti economici”. Un (cauto) cambio di linea che segue quanto hanno già fatto nel 2022 Germania e Spagna, mentre la Francia l’ha annunciato per quest’anno: maggiore spazio all’immigrazione per lavoro.
La principale novità dell’approccio governativo è l’ammissione a denti stretti dell’esigenza d’incrementare gli ingressi per lavoro, dopo anni di esecrazione dei “migranti economici”
Questa parziale ridefinizione dell’approccio sovranista alla questione dimostra che l’immigrazione è in realtà la mobilità umana problematica agli occhi delle società riceventi. Lo sguardo di governi e opinione pubblica sugli spostamenti attraverso le frontiere è selettivo, anche e soprattutto quando non ce ne accorgiamo. E non si tratta soltanto di percezioni o atteggiamenti socialmente condivisi, ma di prospettive che si riflettono sulle definizioni politiche e sulla produzione normativa. In un momento in cui ritorna in primo piano la chiusura nei confronti degli sbarchi dal mare, assistiamo ad almeno tre diversi trattamenti dei nuovi arrivati.
Il primo approccio riguarda i profughi ucraini, a oltre un anno dall’invasione russa. L’Italia ne ha accolti circa 170 mila, senza porre limitazioni numeriche, né vincoli relativi alla loro circolazione, all’accesso al mercato del lavoro, alla fruizione dei vari servizi sanitari, sociali ed educativi. Il governo ha anche erogato contributi affinché potessero cercare autonomamente un alloggio. Roma ha applicato una direttiva dell’Ue, ma è rimarchevole il fatto che l’accoglienza non ha suscitato polemiche politiche né resistenze sociali, né speculazioni mediatiche. Sarebbe difficile sostenere che i profughi ucraini non pesino sul sistema di Welfare, eppure – fortunatamente – nessuno ha eccepito. Coloro che sono fuggiti dall’invasione russa non sono nemmeno definiti nel discorso pubblico come rifugiati o immigrati.
Il secondo caso scaturisce direttamente dalle disposizioni governative prima ricordate, che hanno abbozzato una sorta di nuovo schema delle politiche migratorie dopo il disastro di Cutro. Sono morte in mare persone che fuggivano da guerre e repressioni, e l’esecutivo Meloni ha annunciato un aumento delle opportunità d’ingresso per lavoro, che coinvolgerà Paesi diversi da quelli da cui partivano i naufraghi di Cutro, quasi tutti afghani. Il governo ha in realtà risposto alle pressioni dei datori di lavoro, stretti tra carenza di manodopera e procedure bizantine per i nuovi ingressi, tanto che finora i decreti-flussi sono serviti sostanzialmente a regolarizzare lavoratori già entrati in Italia e privi di documenti idonei per l’assunzione.
In coda alla lista compaiono le persone in cerca di asilo, ma non beneficiate dalla cittadinanza ucraina: verso di loro sono previste una serie di misure che mirano a renderne più difficile l’arrivo, più arduo il riconoscimento della protezione internazionale, più agevole il rimpatrio forzato, almeno nelle intenzioni del governo. Cauta apertura dunque alle braccia, porte chiuse verso le persone in fuga da guerre e repressioni.
Ai rifugiati manca la legittimazione, sia pure reticente e contrastata, che le migrazioni per lavoro in qualche misura conseguono. I Paesi avanzati (e anche quelli in posizione intermedia) sono “importatori riluttanti” di manodopera straniera, soprattutto per colmare i vuoti nei ranghi inferiori di mercati del lavoro molto segmentati. Basti pensare al peso che ha il lavoro domestico e assistenziale di centinaia di migliaia di donne (e uomini) immigrate (solo quelle iscritte all’Inps sono 672 mila, senza contare le altre) per la conciliazione tra cure familiari, obblighi lavorativi e altri impegni sociali di altrettante famiglie italiane. La legittimazione dell’accoglienza dei rifugiati discende invece pressoché unicamente da motivazioni umanitarie, incorporate in convenzioni internazionali e norme nazionali, e dalla volontà politica di dar loro attuazione con maggiore o minore generosità. Nell’ultimo decennio, a partire soprattutto dalle «primavere arabe» del 2011, si è verificata non una «crisi dei rifugiati», ma una crisi dell’accoglienza dei rifugiati, segnatamente nell’Ue. Si è accelerato un deterioramento dell’immagine dei rifugiati, sul piano culturale e politico: da soggetti meritevoli di protezione, come era avvenuto alla fine della Seconda guerra mondiale e poi all’epoca della Guerra fredda, a migranti internazionali non autorizzati e sospettati di ricorrere all’asilo come porta d’ingresso verso l’agognato Occidente.
Insieme ai rifugiati entrano in gioco i solidali. Ossia i cittadini italiani che in vario modo si spendono per rispondere ai bisogni di una popolazione lasciata ai margini del sistema dei diritti
Di questo parliamo nel volume Rifugiati e solidali, in pubblicazione al Mulino. Politiche locali contrastanti, tra accoglienza e rifiuto, attraversamenti dei confini e attivismo, derive di esclusione e sforzi d’integrazione, sono i tasselli di una geografia composita dell’attuazione del diritto di asilo in Italia. Insieme ai rifugiati, talvolta in transito verso altri Paesi, altre volte impegnati a cercare di costruirsi un futuro in Italia, entra in gioco un’altra galassia di soggetti: i solidali. Ossia i cittadini italiani che, in un contesto politico polarizzato e intossicato dalle polemiche anti-rifugiati, in vario modo si spendono per rispondere ai bisogni di una popolazione lasciata ai margini del sistema dei diritti. Sono gli operatori professionali delle Ong e dei servizi sociali, i volontari delle scuole d’italiano e degli ambulatori delle associazioni, i militanti no-borders che accolgono chi arriva a Trieste o accompagnano i transiti verso la Francia.
L’accoglienza dei rifugiati si configura pertanto come un dinamico campo di battaglia, in cui si verificano accesi confronti, si stabiliscono alleanze, si opera sul piano comunicativo per raggiungere l’opinione pubblica. Le politiche di esclusione sono contrastate soprattutto dai soggetti solidali della società civile, dalla diversa ispirazione ideale, (dai cattolici alla sinistra radicale, ma con un numero crescente di volontari spontanei, senza particolari connotazioni di appartenenza) e con differenti profili organizzativi (dalle iniziative informali alle imprese sociali del terzo settore).
Se c’è un filo che in una certa misura collega questi diversi attori, questo può essere rintracciato nella solidarietà contro i confini, ossia in una visione dell’azione umanitaria che prescinde dai confini nazionali come principio regolatore dell’accoglienza e dell’aiuto. Per questo anche quando non ha motivazioni politiche esplicite, la solidarietà verso i rifugiati assume valenze politiche: ha un significato implicito di contestazione delle chiusure sovraniste. Chi cerca di bloccarla, e persino di criminalizzarla, lo ha compreso benissimo.
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