«Domenica sera su Rai3 è andata in onda, nel corso della trasmissione televisiva “Che tempo che fa”, un’intervista rilasciata da Papa Francesco al conduttore Fabio Fazio. In collegamento da Casa Santa Marta, il Pontefice ha risposto alle domande, affrontando vari temi di attualità». Così «L’Osservatore Romano» del 7 febbraio dava conto dell’intervista televisiva «quasi in diretta» della sera prima, pubblicando l’intera trascrizione su tre pagine: ed è chiaro che anche questo documento sui generis si aggiunge alla lista delle fonti che gli storici del papato non potranno trascurare quando studieranno il pontificato di Bergoglio. D’altro canto anche il fenomeno dei selfie esploso negli ultimi anni e che ha coinvolto anche papa Francesco dice molto non solo della sua popolarità, ma certamente tocca anche, su corde diverse, le forme che assume la devozione per il papa nell’età contemporanea.
L’intervista rilasciata dal papa segna certamente una tappa nella storia della Rai (che dal 1954 e almeno fino alla metà degli anni Ottanta, quando viene fondato il Centro televisivo vaticano per volere di Giovanni Paolo II, detiene l’esclusiva dell’immagine dei pontefici) e nel rapporto tra papa e televisione. Papa Francesco era peraltro già stato «ospite» nell’aprile 2017 di una rubrica Rai, Il Sabbatico. Giornale dell’anima, in onda su Rainews e curata da Alberto Melloni, dove rilasciò una sua recensione video al Meridiano Mondadori che raccoglieva in edizione critica le opere di don Lorenzo Milani.
Ma che cosa ci dice in più questa intervista dell’uso dei media da parte dei pontefici? E che cosa in più sul pontificato di papa Francesco in particolare?
Pio XII nella Pasqua del 1949 aveva inviato un messaggio televisivo rivolto ai telespettatori francesi e a quelli statunitensi, sancendo così la prima volta di un pontefice in televisione
L’uso dei media da parte dei pontefici non ha sempre implicato per forza di cose «innovazione» e apertura. Fu nel 1898 che Leone XIII, il papa della Rerum Novarum, decise di accogliere la richiesta di un operatore inglese che aveva sviluppato da poco il kinetoscopio: William Kennedy Laurie Dickson, un concorrente dei fratelli Lumière, entrò così nei giardini vaticani per imprimere su pellicola la figura del pontefice immerso nella quotidianità, anche nell’atto della benedizione.
Quei quadri filmati e diffusi nei teatri e nei cinema statunitensi di fine Ottocento venivano anche usati come prova per i fedeli lontani da Roma del buon stato di salute del pontefice. Il suo vigore era stato messo in dubbio numerose volte, considerata l’età ormai molto avanzata. Papa Leone sarebbe morto a 93 anni nel 1903, ma, a fasi alterne, già a partire dall’inizio del 1890, erano iniziati a circolare commenti sulla salute fisica di quel papa «ossuto, incartapecorito, quasi mummificato» (secondo le parole di Rutten pubblicate sulla «Revue belge»).
Anche Pio XII, in modo lungimirante, due giorni prima dell’avvio ufficiale delle trasmissioni televisive in Italia da parte della Rai, il 3 gennaio 1954, inviò ai vescovi d’Italia una esortazione in cui affermava: «Riconosciamo pienamente, Venerabili Fratelli, il valore di questa luminosa conquista della scienza, essendo essa nuova manifestazione delle mirabili grandezze di Dio, il quale “ne ha dato agli uomini la scienza allo scopo di essere onorato nelle sue meraviglie”». Ma se da una parte si accettava il mezzo, dall’altra si imponeva il controllo e una stretta vigilanza. Pio XII aveva però già fatto ricorso a questa invenzione: nella Pasqua del 1949 aveva inviato infatti un messaggio televisivo rivolto ai telespettatori francesi e a quelli statunitensi, sancendo così la prima volta di un pontefice in televisione. Quei fotogrammi in movimento visti direttamente nei salotti di casa confermeranno nell’immaginario collettivo la fissità di quella figura, ieratica e solenne, nonché distante.
E saranno proprio quelle stesse immagini televisive che faranno invece cogliere agli spettatori di tutto il mondo il diverso modo di intendere il papato da parte di papa Giovanni XXIII. All’immagine di Pacelli, papa «moderno e perfetto», si sostituì quella meno formale e più spontanea di papa Roncalli. Le sequenze di Pio XII che i fedeli si erano abituati a vedere in televisione o nei cinegiornali sembravano appartenere a un’altra epoca. Pareva fossero passati decenni, invece che poche settimane, tra i due pontefici: era già percepibile quel processo di demitizzazione, quella riduzione della distanza tra fedeli e papa, tra mondo e Chiesa che ha portato a parlare di «fortuna mediatica» di papa Giovanni XXIII, data appunto dalla sua alterità rispetto ai moduli comunicativi esperiti dal papato sino a quel momento. Le telecamere della Rai lo seguono in visita ai carcerati e ai bambini all’ospedale, mentre improvvisa discorsi, dà carezze e abbraccia, e si spingono fino nella sua biblioteca privata, riprendendo così per la prima volta nella storia la firma di una enciclica, la Pacem in terris nell’aprile del 1963. La televisione, con la sua trasmissione, concretizzava così la decisione del papa di indirizzarla non solo ai vescovi o ai fedeli cattolici, bensì, toccando la questione della guerra e della pace, «a tutti gli uomini di buona volontà».
La comunicazione, come si vedrà, diventerà parte dell’azione pastorale stessa di papa Francesco; ma sono proprio le immagini televisive a rivelare al mondo questo cambiamento dello stile di comunicazione del papato, che travalica lo stile stesso; è papa Francesco che diventa comunicazione.
Sono proprio le immagini televisive a rivelare al mondo un cambiamento dello stile di comunicazione del papato, che travalica lo stile stesso; è papa Francesco che diventa comunicazione
Si tratta di un passaggio storicamente rilevante, perché il papa è stato immaginato e descritto per secoli come l’abitante della «città proibita» del Vaticano: cioè come qualcuno che viveva in un’altra dimensione e che, senza dubbio, anche nel modo in cui comunicava il suo pensiero agiva in modo differente da qualsiasi altro capo di Stato o autorità religiosa. E aveva ragioni da vendere don Giuseppe De Luca, il prete più colto del XX secolo, quando descriveva Pio XII come un «bassorilievo assiro» (e non per fargli un complimento): perché davvero i papi sembravano rimasti fermi a un’epoca in cui usavano la loro voce solo per insegnare e non certo per farsi interrogare. Fu papa Giovanni a rompere l’incantesimo con l’«incontro in Vaticano» – non un'intervista, si specificava – concesso a Indro Montanelli nel 1959; e, alla fine del Concilio Vaticano II, fu Paolo VI a farsi intervistare da Alberto Cavallari. In questo modo il muro della «città proibita» fu infranto definitivamente: Giovanni Paolo I aprì il suo brevissimo papato con un'udienza ai giornalisti in cui si diceva convinto che san Paolo avrebbe fatto carte false per avere più spazio in Tv; nel 1994 uscì il libro-intervista di Vittorio Messori a Giovanni Paolo II (che in origine doveva essere un colloquio televisivo); il papa polacco, come il suo successore Benedetto XVI, si concesse molte volte ai giornalisti, spesso durante i lunghi viaggi intercontinentali.
Tra tutte le obiezioni avanzate, la più interessante, perché proveniente da ambienti ugualmente vicini o distanti dal cattolicesimo, è stata quella che individuava nell’intervista una dissacrazione della figura del papa
Nell’ultima settimana è stato curioso osservare come la notizia dell’intervista di Fabio Fazio a papa Francesco abbia fatto inarcare più di un sopracciglio. Tra tutte le obiezioni avanzate la più interessante, perché proveniente da ambienti ugualmente vicini o distanti dal cattolicesimo, è stata quella che individuava nell’intervista una dissacrazione della figura del papa. Ma chi l’ha mossa non si è reso probabilmente conto di ricalcare l’immaginario del papa-faraone che è stata abbandonata da più di mezzo secolo. È stato il Concilio Vaticano II a ripresentare il vescovo – e quindi anche il vescovo di Roma – come un pastore a stretto contatto con i propri fedeli. In fondo, chi ha criticato le modalità dell’intervista a Francesco non era molto dissimile da chi, in passato, aveva contestato papa Giovanni per il suo viaggio a Loreto e Assisi; o ancora chi criticava Paolo VI quando prendeva l’aereo; o lo stesso Giovanni Paolo II quando andava a sciare. Da questo punto di vista i pontefici hanno dimostrato maggiore laicità di molti commentatori: memorabile il caso di Giovanni XXIII che, sulla propria agenda, si definiva «un mortale di 103 chili di peso».
Molti giornalisti hanno considerato l’intervista del papa con Fabio Fazio come un’occasione persa, dal momento che sono mancate domande su questioni – dalla crisi russo-ucraina alle violenze sessuali del clero, dal processo contro Becciu al rapporto con Benedetto XVI e via di seguito – che forse avrebbero dato maggiore sapidità a un intervento papale che è parso ad alcuni un po’ troppo preconfezionato. Di fatto, però, l’intervista è stata utile anzitutto al papa per ribadire la sua posizione su temi che gli sono particolarmente cari, come la questione migratoria, la crisi dell’ecosistema o il rigetto del «chiacchiericcio». Interessante poi il modo in cui il papa ha toccato l’argomento della misericordia, descritto come un diritto inalienabile per tutti. Sono quindi emersi aspetti meno noti: il sogno da bambino di fare il macellaio; l’ammissione di saper ballare il tango (d’obbligo per ogni argentino che si vuol definire tale); la recita quotidiana della preghiera di Tommaso Moro per ottenere il dono dello humour; o ancora la lettura delle opere di De Lubac e di Dostoevskij.
Ma forse la cosa più interessante e nuova è quella che il papa ha confidato verso la fine, quando ha detto di avere «pochi ma veri» amici. Perché dicendo questo Bergoglio ha dato un’altra picconata all’idea del papa-statua. Francesco ha affermato di non sentirsi solo e di non aver intenzione di restarlo. La compagnia e il contatto di altri gli sono insomma necessari come l’ossigeno: che è un modo come un altro per ricordare ai cristiani che si può esser tali solo se si accetta di esserlo insieme agli altri.
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