Le politiche migratorie sono sempre il frutto di un equilibrio precario tra logiche politiche e modelli di governance in parte divergenti. Un equilibrio che in periodi di crisi viene fatalmente messo in discussione. Negli ultimi decenni, il crescente desiderio di porre un argine alla mobilità umana si è scontrato con la necessità di mantenere aperti i confini. Se da un lato l’interdipendenza economica e l’apertura dei mercati hanno indotto i Paesi liberali a «rischiare» le migrazioni (si veda J. Hollifield, The Emerging Migration State, «International Migration», 38 (3), 2004), dall’altro le spinte politiche esplicitamente restrittive ispirate dalla supposta esigenza di tutelare la sicurezza e l’identità nazionale  sono progressivamente entrate in tensione con i fondamenti di legittimità dello Stato liberale di diritto.

Per altro verso, se è vero che quello delle politiche migratorie è uno dei terreni dove gli Stati custodiscono più gelosamente la loro «prerogativa sovrana», con il tempo si è affermata la consapevolezza che qualsiasi tentativo di governare la mobilità umana passa necessariamente dalla cessione di un certo grado di autonomia. Le politiche migratorie sono state quindi progressivamente inglobate in regimi di regolazione di portata sovranazionale cui è sempre più difficile sottrarsi.

Negli ultimi anni il linguaggio della «crisi» e dell’«emergenza» ha caratterizzato le politiche migratorie, sebbene articolato in maniera differente. Dopo una breve stagione, più o meno coincidente con i due gravi naufragi dell’ottobre 2013 e dell’aprile 2015, in cui la retorica politica sembrava prediligere il linguaggio delle emergenze umanitarie, focalizzandosi sulla questione della sicurezza dei migranti, il paradigma delle emergenze e della sicurezza «nazionale» è sembrato occupare il campo, entrando in scena dapprima più subdolamente, come nei documenti di indirizzo politico pubblicati dalla Commissione europea a partire dall’estate 2015, e poi in maniera deflagrante nella retorica politica di figure come Viktor Orbán, Donald Trump e Matteo Salvini.

Quello che invocano i cosiddetti «sovranisti» è il diritto di determinare le politiche migratorie e dunque, anche e soprattutto, di regolare l’accesso degli stranieri sul territorio nazionale senza vincoli di alcun tipo, siano essi di natura politica o giuridica. Tale diritto viene rivendicato alimentando nel pubblico l’idea che lo Stato sia sotto assedio, che la sua unità, identità e indipendenza, in definitiva la sua stessa esistenza, siano minacciate dalle forze della globalizzazione, di cui naturalmente le migrazioni sono una plastica esemplificazione. La risposta politica dei sovranisti sembra muoversi in una duplice direzione: richiamo insistito alla sicurezza nazionale per legittimare politiche di controllo della mobilità lesive dei diritti umani di migranti e richiedenti asilo; rifugio nell’unilateralismo sul piano dei rapporti internazionali.

 

[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 3/19, pp. 433-440, è acquistabile qui