Si moltiplicano i segnali che il cambiamento organizzativo e istituzionale dall’università stia comportando anche una trasformazione della “struttura scientifica” dell’istituzione. Essendo l’università un sistema lento ma non immobile, si tratta di un fenomeno prevedibile e per certi versi anche scontato, considerate le trasformazioni scientifiche e tecnologiche in atto.

Ma come, e in quale direzione, sta cambiando l’università? Una delle prospettive possibili dalle quali considerare questa trasformazione è quella della composizione scientifica del corpo docente. Le categorie che qui si considereranno sono i 370 settori scientifico-disciplinari nei quali è inquadrato tutto il personale docente e ricercatore, a loro volta raggruppati in 88 macrosettori e quindi in 14 aree disciplinari. Come è naturale, la mappa del sapere universitario e dell’inquadramento del suo personale viene periodicamente aggiornata, e anzi siamo alla vigilia di una nuova risistemazione.

Un primo elemento su cui interrogarsi è se l’università negli ultimi anni sia stata soggetta a un massiccio cambiamento quantitativo che possa averne modificato a fondo l’assetto. Così non è stato: nell’anno accademico 2001-02 gli studenti iscritti erano circa 1,7 milioni, che sono diventati 1,9 milioni nel 2021-22. Parallelamente sono cresciuti i docenti e i ricercatori, passati da 54.800 a 60.100 nello stesso intervallo di tempo (oltre 64 mila ad oggi). Il rapporto docente/studenti è cambiato poco: da 1:31 a 1:32 (fonte: Rapporti Anvur su università e ricerca 2013 e 2023; si intendono tutti i tipi di università e tutti i tipi di ricercatore).

Se si osserva con maggiore dettaglio la composizione del corpo docente, alcuni elementi non trascurabili di cambiamento hanno tuttavia avuto luogo. Negli ultimi dieci anni, da quando cioè è entrata in vigore la legge Gelmini, è in esaurimento la figura del ricercatore a tempo indeterminato (scesa da 24 mila unità a 5 mila tra il 2012 e il 2022), cancellata da quella riforma del sistema universitario, che l’ha sostituita con una doppia figura di ricercatore a tempo determinato che nel 2022 è arrivata a contare 13.500 persone.

Da quando è entrata in vigore la legge Gelmini, è in esaurimento la figura del ricercatore a tempo indeterminato

Si noterà en passant che se l’intento della legge 240/2010 – così almeno era stata presentata – era quello di dar forma a una piramide con una base larga di ricercatori e un vertice limitato di professori ordinari, il risultato è stato invece quello di mantenere intatto il numero dei professori ordinari, che sono sempre il 25% del corpo docente e ricercatore, ma contemporaneamente di espandere il grado intermedio del professorato, quello dei professori associati, che sono passati dal 28 al 43% del totale.

Invece di una piramide, insomma, la riforma del 2010 ha dato vita a un profilo “a botte”. La base di ricercatori non si è allargata più di tanto, nonostante la legge 240/2010 creasse una figura, il ricercatore a tempo determinato cosiddetto “lettera A” facilmente attivabile e finanziabile anche con fondi esterni.

Ma veniamo al cuore della questione: all’interno della composizione del corpo docente, c’è stata qualche modificazione strutturale in termini di area scientifica? Per rispondere è necessario prendere in considerazione l’arco temporale più ampio consentito dai dati che sono disponibili pubblicamente (sul sito gestito dal Cineca che ritorna l’organico degli atenei, cercauniversita.mur.gov.it; Tab. 1 e Fig. 1).

Prima di commentare i dati esposti è opportuno chiedersi se non siano il frutto di fenomeni diversi, ad esempio della presenza in alcune aree di un gran numero di ricercatori “lettera A”, frutto di contratti o collaborazioni con enti o aziende che hanno interesse ad avere un ricercatore molto qualificato a una cifra ragionevole.

Abbiamo quindi “escluso” dal computo i ricercatori “lettera A” e il risultato cambia in dimensioni, ma non nella differenziazione tra le aree scientifiche che dal 2007 ad oggi hanno aumentato i propri organici e quelle che invece li hanno ridotti (Fig. 2).

La Figura 2 merita più di un’osservazione. In primo luogo il fatto che nel sistema universitario la crescita del numero degli studenti sia stata affrontata in massima parte grazie al reclutamento di personale precario: 9 aree scientifiche su 14, negli ultimi 17 anni, hanno visto ridursi il proprio personale stabile. È vero che alle esigenze crescenti della didattica si è fatto fronte grazie all’aumento del numero dei professori associati (i quali hanno un carico annuo di lezioni che è solitamente il doppio dei ricercatori), però è innegabile che i ricercatori non in tenure track sono la parte potenzialmente più esposta del mondo universitario: tendono inevitabilmente a produrre ricerche mainstream per assicurarsi la progressione della carriera, e sono spesso “dipendenti” per la loro attività scientifica da un professore.

La fotografia della trasformazione dell’università italiana è tuttavia chiara: ci sono alcuni gruppi di discipline forti – l’ingegneria, l’economia, le scienze politiche e sociali – che hanno considerevolmente aumentato i propri organici e, siccome le due cose nel sistema universitario sono strettamente collegate, anche la loro importanza, il loro potere nell’università.

Sul lato opposto, chi ha visto ridurre la propria presenza sono le aree umanistiche e quella medica. Per quest’ultima le spiegazioni sono assai complesse e sono probabilmente da ricondursi al mutato rapporto tra medicina universitaria e medicina pubblica e regionale: meritano un’indagine apposita che non può certo essere condotta da chi scrive.

Per le aree umanistiche – rappresentate soprattutto dalle Aree Cun 10 e 11, dunque le letterature, le discipline artistiche, la storia e la filosofia ecc. – si tratta di un declino evidente e consistente: una riduzione che in alcuni casi rappresenta un vero e proprio cambio di paradigma nella struttura scientifica dell’università italiana.

Per le aree umanistiche si tratta di una riduzione che in alcuni casi rappresenta un vero e proprio cambio di paradigma nella struttura scientifica dell’università italiana

Anche all’interno del mondo umanistico, tuttavia, le differenze tra le varie discipline sono presenti, e non sono da poco. Utilizzando una maggiore profondità di indagine (i macrosettori disciplinari) e un universo più ampio di osservazione (le discipline cosiddette “non bibliometriche”, la cui ricerca non è valutata dagli esercizi di Valutazione della qualità della ricerca su base bibliometrica), è possibile considerare che alcuni settori sono cresciuti, in alcuni casi anche sensibilmente, anche di ⅓ e più, mentre altri si sono ridotti fin quasi di un ¼ (Tab. 2).

È giunto il momento di provare a raccogliere alcune considerazioni conclusive, che derivano da questa osservazione di carattere generale.

Nell’università italiana è in corso uno spostamento di risorse umane verso alcune scienze che stanno acquisendo, in una fase di cambiamento normativo e organizzativo, uno spazio crescente.

Un ruolo considerevole, in questa trasformazione, è stato giocato dal sistema introdotto dalla riforma Gelmini: la possibilità di reclutare ricercatori a tempo determinato è stata sfruttata soprattutto dalle discipline a diretto contatto con il mondo produttivo, politico ed economico, che hanno avuto la possibilità di autofinanziarsi più facilmente questi posti. Tale maggiore forza di alcune discipline si è poi rivelata decisiva anche a livello di ateneo/dipartimento, dove per il sistema di scorrimento delle carriere legato all’Abilitazione scientifica nazionale conta la caratura dei gruppi accademici, che non deriva tanto dalla levatura scientifica quanto dalla capacità di avere relazioni economiche, politiche, associative con il mondo della produzione e della gestione dei territori. Gli umanisti, in questa struggle for life hanno spesso rappresentato l’anello debole, non tanto magari in termini di reputazione o visibilità, quanto piuttosto nella capacità di dimostrare il rilievo formativo e culturale delle proprie discipline.

All’interno della compagine diversificata delle discipline umanistiche, è evidente che si sta assistendo a una trasformazione di fondo. Discipline considerate tradizionalmente gli assi portanti della formazione umanistica, dall’antichistica alla storia, alla francesistica, per fare i primi esempi, riducono i loro organici e, di conseguenza, la loro presenza nei corsi e nei piani di studio. Al contrario, sono in espansione le discipline psico-pedagogiche, quelle politologiche, gli studi legati alla conoscenza della lingua e della cultura di altri continenti, quelli dedicati ai mezzi di comunicazione.

Più in generale, la tendenza di tutti gli ambiti sembra quella di dare preminenza alle discipline applicative, a scapito della ricerca e delle discipline di base. Così facendo, tuttavia, si tradisce la missione secolare dell’università.