Nel dibattito pubblico intorno a quella che viene spesso definita «crisi dei profughi» è piuttosto frequente trovare riferimenti al secondo dopoguerra, indicato genericamente come il precedente storico paragonabile alla congiuntura attuale. I parallelismi fra il repentino intensificarsi del flusso di rifugiati in arrivo nei Paesi europei e i massicci spostamenti di popolazione che ebbero luogo durante il conflitto mondiale, e negli anni immediatamente successivi, entrano in gioco in primo luogo per sottolineare la drammaticità degli eventi in corso. Significativa, in questo senso, è l’assimilazione dei campi oggi destinati a uomini e donne in fuga dai conflitti del Medioriente con quelli che oltre sessant’anni fa alloggiarono le displaced persons nell’Europa appena liberata, e che in alcuni casi vennero ricavati dai campi di concentramento nazisti.

Nelle cronache e nei commenti sono il sovraffollamento, le cattive condizioni igieniche, la precarietà e la temporaneità dell’assistenza a costituire i termini di paragone fra i campi odierni e quelli del dopoguerra. Un paragone proposto per descrivere attraverso immagini a noi più familiari una realtà drammatica e complessa, ma di cui abbiamo iniziato a prendere coscienza solo tardivamente, ossia nel momento in cui la ricerca di asilo di milioni di persone ha riguardato i Paesi europei, ha occupato le prime pagine dei giornali ed è diventata un problema politico sempre più urgente per Bruxelles.

Fino a che punto regge un confronto tra i profughi di allora e quelli che arrivano in Europa oggi?

L’incapacità dell’Unione europea di affrontare la questione attraverso soluzioni condivise – che non rappresentino solo la risposta immediata alla situazione di emergenza, ma spingano tutti gli Stati membri a compiere un passo in avanti sul piano del riconoscimento sostanziale al «diritto di fuga» – costituisce spesso un ulteriore motivo di confronto fra il presente e il passato. Le critiche rivolte alle istituzioni europee assumono infatti maggior vigore attraverso il paragone fra l’attuale impasse e lo spirito di cooperazione che invece avrebbero dimostrato i Paesi riuniti nella neonata Organizzazione delle Nazioni Unite, che nel 1951 ratificarono la Convenzione sullo statuto rifugiati proprio sulla scorta dell’esperienza bellica e postbellica. Da più parti si è ricordato che questa Convenzione rappresenta uno dei pilastri su cui ancora si regge il sistema internazionale per i rifugiati, e si esortato l’Europa di oggi a «re-imparare la lezione del secondo dopoguerra» (si veda, ad esempio, Strangers in Strange Lands, «The Economist», 10.9.2015).

Senza dubbio il ricorso ai riferimenti storici è uno strumento efficace, se l’obiettivo è quello di avvicinare al vasto pubblico europeo le questioni connesse alla «crisi dei profughi» facendo appello a un vissuto comune e al ripetersi di un’esperienza certo drammatica, ma già positivamente risolta in passato. Allo stesso tempo, proposti senza adeguata contestualizzazione e in maniera un po’ impressionistica, i richiami al passato risultano fuorvianti, e finiscono per alimentare una percezione della figura del profugo astratta e sempre uguale a se stessa, inevitabile conseguenza delle «crisi» che segnano la nostra storia. Per sventare il rischio di essenzializzazioni e semplificazioni, è utile guardare al precedente storico così spesso evocato – il secondo dopoguerra – cercando di capire che cosa ha rappresentato nella definizione del regime contemporaneo per i rifugiati, oggi messo nuovamente alla prova dal massiccio arrivo di richiedenti asilo sul continente europeo.

Senza dubbio il secondo conflitto mondiale e l’immediato dopoguerra videro il più massiccio e drammatico movimento di popolazione sperimentato in Europa, all’interno del quale le Nazioni Unite identificarono però una distinta categoria di profughi di cui erano disposti a prendersi cura. Per loro fu coniata una specifica definizione, quella di displaced persons (DPs). Con questo termine si faceva riferimento a tutti i civili che si trovavano fuori dai confini della propria patria per motivi legati alla guerra, ma solo coloro che provenivano dai Paesi schierati contro le potenze dell’Asse avevano diritto alla protezione e all’assistenza. Quindi la scelta compiuta dal proprio Paese d’origine durante lo scontro bellico giocava un ruolo fondamentale per essere (o non essere) riconosciuti come profughi a cui spettava la tutela internazionale: gli appartenenti alle nazioni avversarie degli Alleati, ora sconfitte, non avevano tale diritto.

I richiami al passato finiscono per alimentare una percezione del profugo sempre uguale a se stesso

Questo modo di individuare le displaced persons si poneva in linea di continuità con i criteri già adottati nel primo dopoguerra dalla Società delle nazioni (Sdn) con l’introduzione del «passaporto di Nansen», un certificato di identità che era stato rilasciato ai profughi russi e poi anche agli armeni, agli assiri e ad altre minoranze cristiane provenienti dai territori prima appartenenti all’Impero ottomano. La condizione di profugo attestata dal «passaporto» della Sdn veniva dunque riconosciuta a un insieme di persone individuate in base alla propria nazionalità e a un evento specifico, come le donne e gli uomini russi fuggiti a causa della rivoluzione e della guerra civile, che furono i primi ad avvalersi del nuovo documento. Nel caso dell’attribuzione dello status di displaced persons, vent’anni più tardi, il principio della nazionalità si congiungeva all’attribuzione di una responsabilità collettiva, estesa a tutti i membri delle diverse nazioni, per le atrocità commesse in tempo di guerra.

L’esempio più significativo di questa modalità di procedere riguarda l’esclusione dagli aiuti internazionali dei Volksdeutsche, ovvero dei circa 12 milioni di persone di nazionalità tedesca che dopo la fine della guerra furono espulsi dall’Europa centro-orientale, perché era la popolazione germanica nel suo insieme, indipendentemente dalle storie dei singoli, ad essere considerata la responsabile per eccellenza della tragedia che si era conclusa con la sconfitta del nazismo. La distinzione fra appartenenti a Paesi nemici o alleati cadeva per coloro che erano stati perseguitati dal nazifascismo per motivi religiosi, politici o razziali: ai persecutees – come venivano chiamati nei documenti – spettavano tutela e assistenza, indipendentemente dalla loro nazionalità.

I difficili criteri dell’includere e dell’escludere, per distinguere chi ha diritto a protezione e chi no

I criteri stabiliti per l’inclusione o l’esclusione tra i profughi di cui le Nazioni Unite intendevano prendersi cura erano dunque fortemente debitori sia al principio della difesa dei diritti collettivi e della protezione delle comunità nazionali, sia alla convinzione che aiuto e assistenza dovessero essere erogati seguendo le dinamiche e gli esiti del conflitto, all’interno di un programma umanitario definito dai vincitori. La stessa introduzione della denominazione displaced persons corrispondeva a questo approccio. Hannah Arendt già nel 1951 metteva in evidenza gli inganni della terminologia e sottolineava tanto l’incapacità del sostantivo displaced persons di esprimere la perdita dei diritti di cittadinanza associata alla fuga, quanto l’intenzionale abbandono del termine «apolide», l’unico – a suo parere – in grado di richiamare il senso di tale perdita. «Persino la terminologia è peggiorata», scriveva Arendt ne Le origini del totalitarismo, «il termine “apolide” riconosceva, se non altro, che certi individui avevano perso la protezione del loro governo […] Il termine postbellico “displaced persons” fu inventato durante la guerra con l’esplicito intento di liquidare una volta per sempre l’apolidicità ignorandone l’esistenza».

Chi erano di fatto le displaced persons, la maggior parte delle quali si trovava nei campi profughi della Germania occupata, e poi ancora in Austria e in Italia? Si trattava prevalentemente di ex deportati ai lavoratori forzati, provenienti in più larga misura dall’Europa centro-orientale e balcanica (sovietici, polacchi, cecoslovacchi, jugoslavi), ma anche dai territori conquistati dal nazismo a occidente (francesi, belgi, olandesi). A loro si univano gli ex deportati per motivi politici o razziali, in primo luogo gli ebrei: all’indomani della guerra questi costituivano però una minoranza, perché la macchina della morte nazista non aveva consentito a molti di sopravvivere allo sterminio. Infine, tra le file dei DPs venivano annoverati anche i civili che erano fuggiti verso Ovest con l’avanzare dell’Armata rossa: uomini e donne di diversa nazionalità – in particolare baltici, polacchi, ucraini – in parte fuggiti dagli orrori della guerra, ma soprattutto ostili alle forze di occupazione sovietiche.

Subito dopo la Liberazione, le displaced persons vennero presentate al mondo come le vittime per eccellenza della guerra e ad occuparsi di loro fu la United Nations Relief and Rehabilitation Administration (Unrra), l’agenzia intergovernativa istituita alla fine del ’43 per volontà soprattutto dell’amministrazione americana, allo scopo di portare – come affermò Franklin Delano Roosevelt – «assistenza e aiuto per la riabilitazione delle vittime della barbarie tedesca e giapponese». Nelle regioni occupate dell’Europa post-bellica l’Unrra era chiamata a occuparsi dei profughi secondo le condizioni previste dagli accordi stipulati con le autorità militari alleate, che mantenevano per sé la responsabilità e il controllo di tutte le operazioni che riguardavano i DPs. Alla popolazione profuga che si addensava al centro del vecchio continente ridotto in macerie non si guardava soltanto nei termini di una questione umanitaria, ma anche di un problema che nell’immediato poteva intralciare il controllo dei territori liberati, e sul lungo periodo andava risolto in sintonia con la definizione di un nuovo ordine internazionale.

Chi erano i profughi allora, chi sono i profughi oggi? Perché si muovevano allora, perché si muovono oggi?

I profughi, suddivisi per nazionalità, furono raccolti all’interno di numerosi campi: nel 1946 l’Unrra dichiarava di amministrarne più di 800 nelle zone della Germania governate dagli anglo-americani. Il ricorso a questa soluzione si collocava nel solco di una più lunga consuetudine all’internamento della popolazione civile, consuetudine nata in ambito coloniale già alla fine dell’Ottocento e che in Occidente si era affermata durante il primo conflitto mondiale. Nel secondo dopoguerra la gestione dei profughi attraverso i campi venne però a inscriversi stabilmente tra le pratiche dell’umanitarismo internazionale, non soltanto per il numero elevato dei centri in cui risiedevano le displaced persons, ma anche perché furono prodotti documenti programmatici, norme e linee guida che in qualche modo «sistematizzavano» questa procedura. Il ricorso ai campi diventò un fattore costitutivo delle politiche di soccorso rivolte ai rifugiati, poiché ne garantiva l’assistenza e – come si osservava in uno studio condotto per l’Unesco nel 1955 – il «controllo centralizzato». Si veniva così a consolidare, tanto nei provvedimenti internazionali di aiuto quanto nell’immaginario collettivo, una sorta di rapporto biunivoco tra il profugo e il campo, come se l’uno non potesse esistere senza l’altro (e viceversa).

Il criterio seguito per la divisione della popolazione profuga tra le diverse sedi ad essa assegnate fu quello della nazionalità, un criterio tutt’altro che scevro di contraddizioni. Ad esplodere rapidamente fu per esempio la questione del tardivo riconoscimento degli ebrei come comunità distinta, e dunque la loro sistemazione nei campi in base all’appartenenza nazionale. Come denunciò il rapporto redatto nell’agosto del 1945 da Earl Harrison – rappresentante americano dell’Intergovernmental Committee on Refugees – questo non solo esponeva i sopravvissuti alla Shoah al rischio di ritrovarsi a fianco dei connazionali che li avevano consegnati ai nazisti, ma significava anche «chiudere un occhio di fronte alla precedente e più barbara persecuzione» subita dagli ebrei.

La creazione di campi interamente polacchi, o sovietici, o jugoslavi fu pensata come la premessa indispensabile per il programma di rimpatrio. Il rientro a casa di milioni di displaced persons certo sarebbe potuto avvenire solo in maniera graduale, ma doveva rimanere l’obiettivo principale. In effetti i profughi che provenivano dai Paesi occidentali fecero presto ritorno nei loro luoghi d’origine, ma molti di coloro che avrebbero dovuto partire per l’Europa dell’Est rifiutarono di essere rimpatriati. Tale rifiuto difficilmente poteva essere ignorato di fronte a uomini e donne che, in seguito alle ridefinizioni dei confini determinate dalla fine della guerra, non possedevano più una patria in cui tornare. Era il caso di Estoni, Lettoni e Lituani, visto che gli stati baltici erano stati annessi dall’Unione Sovietica, ma anche molti dei displaced polacchi non intendevano rientrare in un Paese che non corrispondeva più ai vecchi confini e su cui gravava la minaccia dell’ingerenza sovietica.

Il rifiuto del rimpatrio fu ritenuto plausibile – anche se si cercò in ogni modo di convincere i profughi a «tornare a casa» – per tutti coloro che provenivano da territori non appartenenti all’Unione Sovietica prima del 1939, ma per chi era già cittadino sovietico prima dell’inizio della guerra scattò l’obbligo del ritorno, indipendentemente dalle sue intenzioni. Infatti nel corso della Conferenza di Yalta i rappresentati del governo britannico e di quello statunitense avevano firmato con i sovietici due accordi bilaterali nei quali si stabilivano le responsabilità reciproche per il ritorno dei profughi provenienti dai Paesi alleati. La formula utilizzata in questi accordi era piuttosto ambigua, perché imponeva ai suoi contraenti l’obbligo di rimpatriare i displaced britannici, americani e sovietici, ma non affermava espressamente che ciò dovesse avvenire anche contro la loro volontà. In tal senso fu però interpretata dalle autorità militari anglo-americane, che nell’estate del 1946 avevano già rimpatriato circa due milioni di cittadini sovietici, ricorrendo alla forza nei casi in cui il rifiuto del ritorno si era tradotto in resistenza attiva.

Il «reinsediamento» (resettlement) dei rifugiati europei – oggi indicato come modello positivo di integrazione, da ripetersi a fronte della «crisi» attuale – fu dunque una componente importante, ma riguardò un numero limitato di persone, rispetto all’iniziale popolazione profuga. Tra il 1947 e il 1951 circa 700.000 uomini e donne lasciarono i campi della Germania attraverso l’International refugee organization (Iro), che aveva preso il posto dell’Unrra e organizzò il trasferimento dei profughi nei Paesi dove era stato offerto loro un lavoro. I programmi dell’Iro avevano trasformato le displaced persons in minatori per il Belgio o la Francia e in operai per l’Inghilterra, ma soprattutto in salariati agricoli per gli Stati Uniti o l’Australia e in lavoratrici domestiche per il Canada. Le mete extraeuropee – Stati Uniti in testa – avevano ricevuto le quote più elevate di rifugiati postbellici, e il loro ingresso era stato celebrato come l’arrivo di validi lavoratori e dunque futuri buoni concittadini, mentre restava in secondo piano il riconoscimento del loro passato, delle ragioni del loro percorso, degli abbandoni, delle separazioni, dei lutti da cui era stato segnato.

Il «reinsediamento» dei profughi postbellici aveva avuto luogo di pari passo con il consolidarsi di un nuovo ordine internazionale, che in Europa aveva visto calare la cortina di ferro lungo il confine che separava le due repubbliche tedesche, quella federale e quella democratica.

Tutto questo aveva coinciso con l’inizio di un nuovo flusso di rifugiati, costituito dai cittadini dell’Europa dell’Est in fuga verso occidente. La questione era emersa nel 1948, sebbene in misura molto contenuta, con l’ascesa al potere dei comunisti in Cecoslovacchia e la conseguente uscita dal Paese di migliaia di sostenitori della «terza repubblica». Quando il mandato dell’Iro si avvicinò alla conclusione, nel 1951, il fenomeno dei civili in arrivo dall’Europa dell’Est costituiva un problema aperto. In quello stesso anno venne approvata dall’Assemblea generale dell’Onu la Convenzione di Ginevra, che regolamentava le politiche dei singoli stati in materia di asilo. La Convenzione sullo statuto dei rifugiati del 1951 dava seguito al principio generale enunciato nella Dichiarazione universale dei diritti umani, secondo la quale «ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni» (art. 14). L’accordo firmato a Ginevra stabiliva in primo luogo che il termine «rifugiato» fosse applicabile

a chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato (art. 1).

Questa definizione segnava una svolta rispetto ai provvedimenti precedenti perché introduceva un approccio individualistico: la decisione di dare protezione a chi ne faceva richiesta era presa in base alle motivazioni di ogni singolo individuo, veniva cioè attribuito lo status di rifugiato a chi dimostrava di aver subito, o di aver rischiato di subire, personalmente una specifica forma di persecuzione all’interno del proprio Paese di origine. La Convenzione di Ginevra sanciva per la prima volta il diritto individuale a ricevere aiuto, ma lo vincolava a due condizioni, di ordine l’una cronologico e l’altra geografico. Come specificato nell’articolo 1 appena citato, uomini e donne potevano acquisire lo status di rifugiati solo se gli eventi che avevano portato alla loro fuga avevano avuto luogo prima del 1951, ovvero erano riconducibili al secondo conflitto mondiale o alle dinamiche che avevano segnato l’emergere della guerra fredda. Nel medesimo articolo si dava poi la possibilità di porre come ulteriore condizione che gli eventi causa della persecuzione fossero accaduti in Europa, ovvero si consentiva ai singoli governi di escludere dall’acquisizione dello status di rifugiati tutti coloro che provenivano da regioni extraeuropee. La quasi totalità dei Paesi firmatari scelse questa opzione.

La soluzione ai problemi del presente non va cercata nell’esperienza del dopoguerra

Il limite cronologico e quello geografico da un lato confermavano l’interpretazione in chiave europea del riconoscimento di una componente specifica della popolazione profuga come destinataria della tutela internazionale. Dall’altro costituivano l’esito di lunghi e difficili negoziati, attraverso i quali era stato riaffermato, anziché messo in discussione, il peso delle sovranità nazionali. Soltanto nel 1967 il Protocollo di New York avrebbe soppresso la limitazione temporale introdotta nel 1951 e stabilito che i firmatari del nuovo accordo dovessero rinunciare anche alla limitazione geografica, fatte salve, però, le dichiarazioni restrittive già rese in sede di ratifica della Convenzione di Ginevra e non modificate successivamente. La Turchia, per esempio, non ha mai abrogato la limitazione geografica, ed è questa la ragione per cui oggi non riconosce lo status di rifugiati ai civili in fuga dalla Siria.

Il secondo dopoguerra ha senza dubbio costituito un momento cruciale nella costruzione storica del sistema internazionale per i rifugiati, sul piano normativo e istituzionale, ma anche dal punto di vista delle tecniche di intervento e delle pratiche di assistenza. Tuttavia non credo che si debba guardare a quegli anni e a quell’esperienza per trovare la soluzione ai problemi del presente o per cercare modelli di intervento ripetibili. Piuttosto, sfatare il «mito delle origini» dell’attuale regime internazionale per i rifugiati e guardare alle complesse dinamiche che ne hanno segnato la definizione consente di individuarne meglio le rigidità e le contraddizioni, mettendo a nudo per esempio la presunta oggettività delle definizioni e delle classificazioni, a cui oggi tanto ci si appella in primo luogo per separare rifugiati «autentici» e «migranti economici».

Più in generale, andando al di là dei riferimenti sporadici al secondo dopoguerra, recuperare una prospettiva di lungo periodo è necessario per contrastare quel processo di «depoliticizzazione» della questione dei profughi da tempo denunciato dai refugee studies, ovvero la sua interpretazione unicamente nei termini di una «emergenza umanitaria» e la perdita di consapevolezza delle complesse ragioni politiche, sociali e culturali che sullo scenario globale determinano il fenomeno della fuga. La riacquisizione di questa piena consapevolezza tra i cittadini costituisce uno dei presupposti su cui può fondarsi la capacità dell’Europa di dare una risposta adeguata alla richiesta di asilo di milioni di persone.