L’analisi dei risultati elettorali degli ultimi anni – ed in particolare delle elezioni presidenziali americane e francesi, oltre al referendum sulla Brexit – ha portato in voga una lettura che usa come variabili esplicative fattori culturali, piuttosto che economici o più propriamente politici. La società, secondo questo nuovo mainstream, sarebbe divisa non già più tra destra e sinistra – categorie novecentesche – ma  tra fautori di una società aperta e chiusa: una tesi introdotta da Tony Blair nell’ormai lontano 2007, e resa popolare lo scorso anno dall’«Economist», che al tema ha dedicato un intero numero.

Il cleavage open/close si sostanzia nella creazione da una parte di un elettore – di più, di un cittadino – istruito, ottimista, in favore del multiculturalismo, dei diritti civili e del libero mercato; dall’altra di uno restio al cambiamento, impaurito dall’immigrazione e dalla perdita dei valori tradizionali, con meno possibilità di «sfruttare» le opportunità date dalla globalizzazione e che richiede uno Stato protettore e interventista. Una variante divulgata sul «Washington Post» da Christopher Federico preferisce parlare di autoritarismo come variabile culturale di un certo tipo di elettori che si riconoscono in una società basata su conformismo, ordine e intolleranza verso il diverso. Una narrazione che coincide con forza con il messaggio e la strategia politica dei democratici americani – e del Labour, almeno pre-Corbyn –, che ormai da anni hanno puntato come raison d’être sulla rappresentanza politica di una coalizione arcobaleno, imperniata su diritti civili e multiculturalismo e sospinta dal cambiamento demografico in atto, che riduce pian piano il peso dei bianchi nella politica americana.

Ci sono però molte ragioni per diffidare di tali spiegazioni. Non si vuole qui certo negare che i fattori culturali abbiano un peso rilevante in politica: la contrapposizione valoriale tra Bible Belt e Stati costieri, o la centralità del razzismo nel Sud degli Stati Uniti, sono fatti noti a qualsiasi studente di American Politics. C'è però da dubitare che questi fatti sociali acclarati – uniti all’invece indubitabile aumento delle tensioni etniche in Europa – siano sufficienti per delineare delle macro-categorie in cui fautore della società chiusa sia chiunque critico del mercato e del libero movimento di merci o di persone. La supposta obsolescenza di categorie come destra e sinistra diventa in realtà un assunto che si auto-avvera: si decide ex ante che non c’è differenza tra Sanders e Trump – rappresentati non a caso insieme nella vignetta dell’«Economist» – perché entrambi sono critici della globalizzazione. Lo stesso vale per Mélenchon e Le Pen e, apparentemente, per l’intero panorama politico inglese con l’eccezione dei liberal-democratici. Il profilo sociale di questi gruppi è estrapolato da alcuni risultati elettorali, usando in particolare voti binari come le presidenziali americane o il referendum sulla Brexit, limitando nuovamente ex ante le opzioni politiche: da una parte i giovani, preferibilmente istruiti, che vivono nelle grandi città, fautori della società aperta. Dall’altra, i «reazionari» che vogliono costruire muri, sono nella maggior parte dei casi anziani, bianchi, con un basso livello di istruzione e residenti in zone economicamente periferiche. E così il voto pro-Trump si spiega, convenientemente, con la forza di una working class bigotta e reazionaria, mentre la Brexit sarebbe il risultato di anziani che «rubano» il futuro ai giovani, dichiaratamente europeisti.

Si tratta però di categorie tutt’altro che omogenee: come ha fatto notare giustamente James Bloodworth, con generalizzazioni di tal genere, in cui l’approccio culturale soverchia i bisogni sociali ed economici, si finisce per mettere insieme un addetto al call center e un miliardario della Silicon Valley. O un critico del mercato come Corbyn e un iper-liberista come Farage. E d’altronde i comportamenti politici dei gruppi sociali in questione contraddicono tanto le ipotesi di partenza quanto le analisi: i millennials sembrano fare notizia quando scelgono, tiepidamente, Hillary o Remain, ma non sembrano attirare altrettanta attenzione quando sostengono con forza Sanders e, in misura minore ma comunque significativa, Jeremy Corbyn. E in Francia, al primo turno, dove le opzioni non erano semplicemente tra Macron e Le Pen, i giovani hanno scelto prevalentemente il candidato di sinistra Mélenchon. In realtà, appunto, le scelte di voto di tale gruppo sociale sembrano dettate più dall’appartenenza politica tradizionale – ammettendo per buone le categorie sostegno per la sinistra close contro quella open, ma, in un secondo momento, voto per la sinistra open contro la destra close – che non le supposte attitudini culturali.

È certamente vero che in alcuni casi le contrapposizioni politiche valicano la distinzione destra-sinistra: ma questo sembra più il frutto della condizione sociale degli elettori e di un panorama politico che si è in parte riallineato tra chi difende lo status quo e chi lo critica. Guardando alla mappa del voto per Marine Le Pen, perfettamente sovrapponibile a quella della disoccupazione in Francia, la variabile esplicativa sembra quella economico-sociale piuttosto che quella culturale. Ed anche negli Stati Uniti, anziché concentrarsi sul razzismo – stranoto e di vecchia data – degli elettori repubblicani, sarebbe forse più interessante capire come mai Trump abbia vinto le elezioni nella Rust Belt fatta essenzialmente di Stati democratici che avevano eletto per ben due volte Obama. Se è vero che più che i lavoratori è stata la borghesia schiacciata dalla crisi a votare Trump – quella che ce l’aveva «quasi fatta», per usare le parole di Mike Davis – è pur vero che, come spiegato dal Nobel Angus Deaton, esiste un problema enorme di disagio sociale anche tra i bianchi americani. Mentre il voto massiccio dei giovani per candidati «radicali», soprattutto a sinistra, segnala il forte scontento dell’altra categoria demografico/sociale più colpita dalla crisi. La vera divisione sembra dunque insita nei ceti sociali pauperizzati e marginalizzati dal capitalismo del XXI secolo e dalla crisi, e non dal loro approccio culturale che ne è al più il risultato ideologico. In fondo, come diceva il vecchio Marx, «non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza».