Rai Movie chiude, pare. E chiude anche Rai Premium, con molto meno clamore. La notizia è venuta fuori, come capita spesso, come indiscrezione, tra le righe del nuovo piano industriale, non smentita dagli interessati e infine confermata dalle fonti ufficiali dell’azienda. Rai Movie, il canale tematico free interamente dedicato alla programmazione di film, chiude; anzi no, sarà «accorpato» a Rai Premium, l’omologo che trasmette soprattutto fiction in replica, in una nuova rete, idealmente Rai 6, che offrirà una programmazione «femminile» (a completare la più «maschile» Rai 4). Chiusura o fusione, quello che c’è di sicuro è che gli spettatori che la sera (o in altri momenti della giornata) scelgono di vedere un film (cosa ben diversa dallo scegliere un film da vedere) non avranno più a disposizione il canale 24 del digitale terrestre, ma dovranno migrare sugli altri canali dell’offerta Rai, che secondo il direttore generale Fabrizio Salini nel complesso assorbiranno e valorizzeranno ancora meglio l’offerta di cinema. Ma ovviamente potranno anche indirizzarsi, a quel punto, su altre reti tematiche finora concorrenti, come Iris e il più recente canale 20, entrambe di Mediaset, o come Paramount Network e Cine Sony, le cui dirigenze, per usare un eufemismo, non sono apparse troppo afflitte dalla situazione.

La reazione non si è fatta attendere. Gli appelli comprensibilmente veementi dei collaboratori di Rai Movie sono stati rilanciati da professionisti dello spettacolo, attori e registi, politici, giornalisti, comuni cittadini. Nel volgere di qualche giorno, si è consumato il rito dell’indignazione sui social network, della petizione su Change.org, delle contro-indignazioni. La stampa ha ricostruito il caso, Aldo Grasso ha scritto un’accorata lettera aperta al dg. Il presupposto che sembra alla base di buona parte di questi interventi, in larga parte contrari alla scelta della Rai, è che il consumo di film in tv sia un diritto di chi paga il canone, parte integrante del sempre invocato servizio pubblico. In termini storici sarebbe vero il contrario: è l’esplosione delle reti private tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta a trasformare il piccolo schermo in una sala di seconda visione gratuita e sempre aperta, laddove nella tv del monopolio il film era un contenuto assai meno disponibile. David Bordwell e Kristin Thompson, importanti storici del cinema mondiale, discutendo dell’ingresso in quel momento della tv quale player decisivo nella produzione e offerta di film, un fenomeno che va ben oltre il nostro Paese, descrivono il caso italiano come eccezionale e parlano di «400 canali televisivi locali [che] programmavano addirittura 2.000 film alla settimana» (Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi, 1998, p. 419). Difficile verificare i numeri. Ma va notato che il cinema è ritenuto un contenuto pregiato, distintivo, ma anche da garantire a tutti.

Non stupiscono allora la discussione sollevata dalla notizia, le prese di posizione pubbliche, l’immediata polarizzazione e radicalizzazione delle opinioni, l’accumularsi di una serie di luoghi comuni, errori, fraintendimenti sul cinema in tv, sui doveri di servizio pubblico, sull’industria televisiva, sulle tecnicalità dell’organizzazione di un’offerta e del posizionamento dei canali. Andando ben oltre il caso in esame e così perdendoselo per strada, riducendo a slogan questioni più sfaccettate. Tanto per cominciare, c’è un dato di fatto: sia Rai Movie sia Rai Premium sono esperimenti di successo, sono reti che funzionano. Nel 2018 e nei primi mesi del 2019, Rai Movie è stata scelta ogni sera, in media, da 314.000 spettatori (1,4% di share, quinta tra le reti del digitale gratuito) e si difende bene anche nelle altre fasce orarie (la media giornaliera è dell’1,1%); Rai Premium arretra leggermente in prime time (240.000 spettatori, 1% di share), ma è più costante nell’intera giornata (1,2% e quarta rete digitale free, dopo Tv8, Nove e Real Time). Le rilevazioni Auditel parlano di due reti che negli anni hanno consolidato e aumentato i propri spettatori, con composizioni demografiche complementari: Rai Movie ha in proporzione un pubblico più maschile, settentrionale, istruito; Rai Premium uno più femminile, maturo, centro-meridionale, con titolo di studio inferiore. È il servizio pubblico, quello che parla a tutti, quello del «di tutto, di più». In un quadro come questo, la volontà di cambiare si spiega solo come un ripensamento complessivo dei brand di canale, una scommessa piuttosto rischiosa, una volontà di «lasciare il segno» in modo esplicito sull’offerta Rai da parte di Salini, in una direzione peraltro coerente con la sua storia professionale (nella sua carriera ha lanciato reti come Fox Life, Fox Crime, Giallo e ha gestito Sky Uno e La7d).

C’è un dato di fatto: sia Rai Movie sia Rai Premium sono esperimenti di successo, sono reti che funzionano. Nel 2018 e nei primi mesi del 2019, Rai Movie è stata scelta ogni sera, in media, da 314.000 spettatori; Rai Premium da 240.000

Sotto la superficie della polemica, si intrecciano allora considerazioni di varia natura, non detti di lungo corso, direzioni contraddittorie e tutte possibili. Possiamo distinguere cinque grandi questioni. La prima è quella del rapporto, inevitabile, tra televisione e cinema. La Rai è un attore dai molteplici ruoli, che investe, produce e trasmette, che sostiene ampiamente l’industria audiovisiva italiana – Il cinema di Stato, per citare la recente ricerca curata da Marco Cucco e Giacomo Manzoli – e la celebra con i David. Rai Movie è allora un tassello essenziale di tale sistema, fatto di obblighi di programmazione da rispettare (le quote, europee e italiane, di opere audiovisive da mandare in onda), di grandi accordi quadro con i distributori, di sostegno a una cultura cinematografica, ma pure di sbocco obbligato per quei titoli che non hanno spazio altrove. Sugli altri canali, presenti e futuri, i film devono inserirsi in specifiche linee editoriali, e qualcosa resta fuori; il singolo titolo può fare risultati migliori (spesso, però, inferiori alle attese e obiettivi della rete), ma svanisce il valore complessivo di un’offerta dove il totale è superiore alla somma delle parti, dove anche il tassello televisivamente più debole può trovare il suo senso. Si interviene a valle, sui palinsesti e sui canali, quando le criticità, sia produttive sia di strategia più generale di intervento sul cinema, stanno invece soprattutto a monte, in un sistema che obbliga la Rai a giocare su più tavoli, non tutti – per forza di cose – vincenti (o razionali in prospettiva strettamente tv).

C’è il tema del rapporto, irrisolto, con il catalogo. I due canali che saranno sostituiti sono formidabili valvole di sfogo per contenuti di library, che la Rai ha a disposizione a costi nulli, o comunque ridotti. Soprattutto Rai Premium, ignorata nel furore polemico, ha un compito silente, forse meno prestigioso e distintivo, ma in realtà cruciale, di dare valore all’archivio, di «riciclare» costantemente il magazzino, di giocare di sponda con le reti maggiori offrendo repliche quasi immediate delle produzioni importanti. Nell’abbondanza di offerta digitale, un ruolo gregario, ma da non sottovalutare (mentre già nel 2010 era stata chiusa Rai Extra). Terzo nucleo discorsivo è il rapporto, ancora tutto da consolidare, con il digitale e l’ottima piattaforma Rai Play: da un lato è lo spazio che mette e metterà a disposizione ancora più film e contenuti di ogni genere, e come soluzione al problema è stato appunto indicato; dall’altro c’è però il rischio concreto di ridurre in modo drastico le possibilità di incontro dei film con un pubblico legittimamente pigro e distratto. I diritti digitali sono spesso legati al «catch-up», cioè alla possibilità di recupero del film dopo la messa in onda tradizionale. E se il cinema finisce lontano dagli occhi, e dallo zapping, ci vuole dedizione per trovarlo on demand, proprio quella dedizione che manca a chi, come si diceva, decide di vedere un film, e non necessariamente sceglie un film preciso da vedere.

Se il cinema finisce lontano dagli occhi, e dallo zapping, ci vuole dedizione per trovarlo on demand, proprio quella dedizione che manca a chi, come si diceva, decide di vedere un film, e non necessariamente sceglie un film preciso da vedere

Un altro bersaglio polemico, magari benintenzionato ma parecchio naif, è stato il target dei canali che si prospettano all’orizzonte, la loro declinazione in termini di «maschile» e «femminile», all’origine di una cortina fumogena di varia approssimazione che ha portato persino la Rai a giustificarsi. In tv, per ogni rete e programma, è infatti moneta corrente, e strumento del mestiere, fare riflessioni e valutazioni a partire dalle metriche fornite da Auditel e ragionare sul posizionamento in base al genere, all’età, alla provenienza geografica, ai livelli di istruzione e allo stato socio-economico del pubblico (quello previsto e quello davvero raggiunto). Certo si tratta di approssimazioni, ma sono legittimi arnesi di marketing, utili a definirsi nel contesto competitivo e a presentarsi in modo chiaro e originale a un pubblico che poi sceglierà liberamente in cosa riconoscersi. Già Rai Movie e Premium hanno (anche) connotazioni maschili e femminili, già il panorama è affollato di reti rivolte in misura prevalente a donne o a uomini, a audience giovani o mature, e così via. Senza far troppo rumore, cosa normale in un sistema (anche, e soprattutto) commerciale. E allora la quinta questione è quella, sempre presente, sul ruolo del servizio pubblico, sulla sua specificità, ma pure sulla necessità di battersi in uno scenario fortemente combattivo, di tenere conto di metriche, target e volontà degli investitori pubblicitari, di trovare il proprio spazio in un’abbondanza di offerta (televisiva e digitale) che finisce per indebolire, se non annullare, ogni velleità pedagogica, ogni direzionalità e imposizione troppo forte. E non è detto che sia un male.

Si ritorna, insomma, per l’ennesima volta, a discutere sul ruolo della Rai, tra idealità e concretezza. Rai Movie (e in parte Rai Premium) è il casus belli del giorno. La scelta tra un’editorialità dei canali fatta per genere (genre) o per genere (gender) ha regalato facili categorie per posizionarsi in un attimo sui due fronti, tra chi privilegia il contenuto e chi tiene l’occhio sui target di riferimento. Ma la nobile battaglia ideale scende però sul terreno ben più prosaico del confronto tra la volontà molto rischiosa di cambiare strada – portando la Rai a confrontarsi, nel campo dei canali femminili, con un’offerta affollata, solida e brillante – e quella invece di mantenere e consolidare quanto – per linea editoriale, dati sul pubblico, spazio rispetto ai competitor, impatto sull’intera filiera audiovisiva – già funziona, e funziona bene.