Come al solito la reazione prevalente è quella di ignorare la questione, di alzare le spalle; di richiamare i luoghi comuni secondo i quali i leghisti gridano tanto ma in fondo sono dei bravi ragazzi.
Errore grave: la proposta (per quanto vaga) di lasciare a ciascuna regione il 75% del gettito fiscale totale raccolto nel suo territorio è importante e grave; andrebbe discussa con attenzione. Prima di tutto nei suoi risvolti di tattica politica. Perché la Lega da sempre usa questo sistema: tirare molto alto – senza suscitare grandi reazioni – per poi apparire persino moderata nel richiedere concreti risultati riducendo le proprie pretese. E perché questa stessa proposta è stata fatta propria da un grande partito nazionale (il Popolo della Libertà), assumendo una rilevanza che va ben al di là della rivendicazione localistica. Il silenzio dei pidiellini è clamoroso. Poi per i motivi di fondo. È costituzionalmente eversiva. La Costituzione è chiara: la tassazione è individuale, ed è progressiva in base al reddito. Anche i diritti di cittadinanza (istruzione, salute) sono personali, e sono indipendenti dal reddito. Per questo la politica economica nazionale svolge un fondamentale ruolo redistributivo: indirizza una parte delle tasse pagate dai più ricchi al finanziamento dei servizi per i più poveri, ovunque essi vivano. Come ovunque in Europa, come negli Stati Uniti, svolge un fondamentale ruolo politico: riduce le disuguaglianze, offre opportunità a chi ha meno. Un principio liberale, su cui si fondano le basi del nostro Stato democratico, che sarebbe stravolto dalla proposta Lega-Pdl: i principi dell’azione pubblica diventerebbero territoriali e non individuali.
È una proposta che, concretamente, distruggerebbe l’Italia come la conosciamo. Per fare conti precisi servono più dettagli, ma una cosa è già chiara: il governo nazionale non avrebbe le risorse finanziarie per far fronte ai suoi impegni: a cominciare dagli interessi su debito, sicurezza, difesa e giustizia, previdenza; oltre alle azioni di «perequazione» fra regioni ed enti locali, e alle politiche di sviluppo dei territori più deboli, previste anch’esse dalla Costituzione. Dovrebbe smettere di esercitare alcune funzioni, e lasciarle alle regioni in grado di pagarsele: polizia padana, giudici padani, pensioni padane. Ma così, appunto, finirebbe l’Italia.
È una proposta estremista. La priorità non va alle politiche per la crescita e lo sviluppo (allargare la torta per tutti), ma alla redistribuzione dai (territori) poveri ai (territori) ricchi. Ricalca un desiderio che si va purtroppo diffondendo in Europa: quello di uscire dalla crisi a spese degli altri (europei), preferibilmente di quelli più deboli; e che ha evidenti echi anche nel dibattito sul bilancio dell’Unione. Aria da anni Trenta. Una linea diametralmente opposta a quella seguita nel dopoguerra, che ha dato all’Europa decenni di prosperità (e di pace), e che si è concretizzata da ultimo anche nel grande allargamento a Est: stare insieme – anche con Paesi molto più poveri – perché la crescita di ognuno è il benessere di tutti.
Postilla finale. È infine una proposta molto lombarda. Centrale nella campagna elettorale di quella regione; tarata sulla Lombardia. Spiace davvero molto non aver sentito finora nessun «gran lombardo» respingerla con nettezza, sostenendo banalmente che la ricchezza di quella regione viene dalla sua straordinaria capacità di produrre e vendere in un’economia aperta, e non dal saccheggiare il bilancio dello Stato a spese degli altri. Troppo pericoloso chiedere voti guardando all’intelligenza, alla cultura e ai valori degli elettori lombardi piuttosto che al loro portafoglio?
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