Le modalità attraverso cui Bruxelles influenza la ricerca nello spazio europeo rappresentano al contempo una materia di grande complessità e di rilievo assoluto. La complessità, come è immaginabile, è dovuta alle procedure burocratiche che sovrintendono, anzitutto, alla formazione dei temi stessi di ricerca e, in secondo luogo, alle articolate procedure di selezione dei progetti presentati dai candidati proprio su quei temi. Il rilievo, invece, è legato alla sempre maggiore importanza che la ricerca europea assume in tema di finanziamento e di progressioni nella carriera universitaria. Benché gli stanziamenti nazionali siano ancora superiori a quelli europei – è il caso di Horizon 2020 –, è innegabile che il peso di Bruxelles in questo campo sia sempre maggiore. A queste considerazioni se ne devono necessariamente aggiungere altre, che riguardano nel merito l’ambito prettamente umanistico.
È ben nota, e non occorre qui ripercorrere, l’enorme distanza che separa i finanziamenti alle materie scientifiche di area cosiddetta Stem da quelle umanistiche intese in senso lato. Queste ultime hanno ottenuto un tardivo riconoscimento nell’ambito della ricerca europea, venendo considerate come autonome rispetto a quelle scientifiche – e ricevendo quindi autonomi finanziamenti – a partire dal 6° Programma quadro (2002-2006). Le discipline umanistiche sono da quel momento raccolte nella definizione di Social Sciences and Humanities (Ssh). Si tratta di una categoria di fatto residuale, perché raggruppa al proprio interno tutto ciò che non appartiene alle Stem, e omnicomprensiva, poiché racchiude epistemologie molto distanti tra di loro. Al proprio interno, le Ssh presentano due livelli di partecipazione – e di finanziamento – molto diversi. In questa unione, infatti, vi è una componente forte, rappresentata dalle discipline che ricadono nell’alveo delle scienze sociali, e una estremamente fragile, vale a dire le Humanities.
Alcuni dati possono essere utili per riflettere in tal senso. Le Ssh hanno conosciuto una rilevante espansione nei bilanci della ricerca dell’Unione. Gli stanziamenti sono più che raddoppiati percentualmente, passando dall’1,9% del 7° Programma quadro (2007-2013) al 4,4% di Horizon 2020 (2014-2020). In questo programma, a fronte di 77 miliardi di euro totali stanziati per la ricerca, 1,3 miliardi sono stati destinati alle Ssh. Una più approfondita analisi dei dati, tuttavia, si rende necessaria per comprendere l’effettiva rilevanza delle discipline umanistiche. I dati riportati sono disponibili nel sito dell’Unione europea dedicato ai bandi di ricerca (dati al 4.1.2024). L'immagine rappresenta i singoli progetti che sono stati finanziati nell’ambito del programma generale, Horizon 2020 (grafico 1).
A fronte di 22.920 progetti finanziati nelle scienze naturali, 13.799 in quelle ingegneristiche e tecnologiche, 8.832 nelle scienze mediche e 2.351 in quelle agricole, le Ssh nel complesso hanno ricevuto 10.212 progetti finanziati. Di questi, 10.182 nelle scienze sociali e soltanto 30 nelle scienze umane. Nella speranza di fornire uno spaccato quanto più completo possibile, si è deciso di ripetere l’esperimento con l’azione Marie Skłodowska-Curie. Si è scelto di riportare l’anno 2018 (grafico 2), per fornire un dato non alterato dalla fortissima concentrazione di finanziamenti che il Covid-19 ha comportato nei confronti del settore medico. I risultati, tuttavia, non sono di alcuna consolazione per le materie umanistiche.
Anche in questo caso, le scienze naturali sono di gran lunga le più finanziate, con 980 progetti. Seguono le scienze mediche con 408, quelle ingegneristiche e tecnologiche con 369. Vi sono infine le scienze agricole con 75 progetti. Le Ssh hanno visto finanziati 297 progetti: anche in questo caso, la quasi totalità appartiene alle scienze sociali: 295 contro i 2 delle scienze umane.
Vi sono alcuni elementi che concorrono a far sì che le scienze sociali abbiano caratteristiche che le rendono più spendibili nello spazio di ricerca europeo
Vi sono alcuni elementi che concorrono a far sì che le scienze sociali abbiano caratteristiche che le rendono più spendibili nello spazio di ricerca europeo. Il primo punto è rappresentato dalla metodologia che accomuna molte delle scienze sociali, che si basano su criteri con un alto indice di misurabilità. In questo senso, le scienze sociali, proprio per l’ampio uso di strumenti quali ad esempio quelli statistici, permettono una maggiore comparabilità dei dati e dei risultati. Quanto appena scritto ha un effetto diretto in relazione alla politica europea e si lega strettamente al modello funzionalista alla base del processo di integrazione. A partire dagli anni Novanta, scrive Matteo Gerli (L’Europa della conoscenza. Politica della ricerca e scienze sociali in prospettiva transnazionale, Franco Angeli, 2022, pp. 11 s.), l’agenda di ricerca europea ha impresso una svolta socio-costruttivista che ha interessato le modalità attraverso cui l’Ue rappresenta le costruzioni culturali, sociali e delle identità presenti all’interno dei propri confini. In questo senso, le Ssh sono infatti valutate in un’ottica di beneficio atteso rispetto alle risorse investite. Esattamente come per le Stem, vi è dunque una forte prevalenza del criterio economicistico. Come è immaginabile, si tratta di un approccio che pone diversi problemi alle materie umanistiche, costrette a giustificare le ricerche di settore con una loro immediata applicabilità. A uscirne fortemente condizionato è lo stesso metodo di lavoro dei ricercatori in ambito umanistico. Oltre a quanto scritto, infatti, le Humanities scontano un doppio limite, che tuttavia ben lascia intendere il ruolo ancillare che la ricerca europea riserva loro. Da un lato, infatti, i progetti europei presuppongono in gran parte un lavoro di équipe che mal si adatta alle modalità di ricerca di molte materie di ambito umanistico, che si esprimono principalmente in uno studio e in una produzione scientifica individuali.
Dall’altro, la forma richiesta dai progetti europei – con la suddivisione, ad esempio in work packages – sembrerebbe aderire maggiormente alle materie scientifiche o, al più, alle scienze sociali.
Se è dunque vero che la metodologia di ricerca di gran parte delle scienze sociali meglio si adatta al modello richiesto dall’Unione europea, ciò diviene evidente per quanto riguarda i comitati di esperti chiamati a contribuire alla formazione delle tematiche di ricerca in ambito europeo. Thomas König (T. König, SSH-Impact Pathways and SSH-Integration in EU Research Framework Programmes, IHS Working Paper Series 5/2019, pp. 12-27) ha posto in evidenza la composizione dei panel di esperti su alcune tematiche nell’ambito del programma Horizon 2020. Quello che emerge è la presenza, numericamente significativa, di studiosi di scienze sociali, a fronte della quasi totale assenza delle Humanities. È possibile notare, come anche all’interno delle stesse scienze sociali, vi sia una chiara gerarchia che vede gli economisti al primo posto (tabella).
L’Unione europea vede nelle scienze sociali una fonte di legittimazione del proprio processo decisionale
Un altro punto centrale è rappresentato dal procedimento di selezione degli esperti, siano essi chiamati – come nel caso sopra richiamato – a contribuire agli indirizzi di ricerca o a valutare i progetti presentati. In entrambi i casi, infatti, la selezione avviene nel rispetto dei criteri di adeguata rappresentatività di genere, provenienza e aree disciplinari, partendo da una lista redatta dalla Direzione generale ricerca dell’Ue sulla base di candidature spontanee. Il punto critico è tuttavia rappresentato dalla mancanza di trasparenza nel processo di selezione per quanto riguarda l’inserimento in lista (ibidem). Oltre a questo c’è la tendenza, da parte della burocrazia europea, a privilegiare il reiterarsi di panel di esperti che hanno garantito processi di valutazione in linea con le aspettative di Bruxelles. In tal senso, saranno quindi preferiti coloro che, in un’ottica multidisciplinare, si sforzano di evitare irrigidimenti epistemologici (cfr. Gerli, L’Europa della conoscenza, cit., p. 322) a favore di una visione post-disciplinare. Ciò è tanto più importante se si tiene conto del fatto che l’Unione europea vede nelle scienze sociali una fonte di legittimazione del proprio processo decisionale. Si tratta, tuttavia, di un approccio dai tratti dirigisti, che rischia di esercitare sui ricercatori un eccesso di pressione in grado di inibire il formarsi di idee innovative, spingendo a un adattamento verso prospettive già istituzionalizzate.
Il rischio è quello che si inneschi un processo tautologico: l’Unione europea esercita una forma di pressione finanziaria, indirizzando così indirettamente il processo di formazione delle linee di ricerca. Lo stesso avviene anche nel processo di selezione delle proposte. Il risultato è che difficilmente i progetti selezionati si discosteranno significativamente dagli indirizzi politici di Bruxelles. Allo stesso modo, gli studiosi saranno portati a orientarsi verso un approccio mainstream nel portare avanti il proprio progetto. La grande difficoltà nel ricavare uno spazio autonomo da parte delle materie umanistiche, tuttavia, non si esaurisce alle ragioni fin qui richiamate. C’è infine un’altra questione, molto rilevante, ma che qui può essere soltanto accennata: le Humanities hanno ambiti di studio che tradizionalmente si legano maggiormente alle comunità nazionali rispetto alle scienze sociali. Hanno dunque implicazioni politiche in un certo qual senso opposte rispetto alla dimensione sovranazionale europea. Ciò le rende “poco gradite” al sistema europeo di finanziamento della ricerca. Un significativo segnale in tal senso è rappresentato dai settori Erc per l’ambito storico (SH 6). Qui, la storia contemporanea e quella moderna, che maggiormente si radicano ancora nelle storie nazionali, sono collocate nello stesso sotto-settore, condividendone quindi le risorse (SH 6_9), mentre sono riservati alla storia coloniale e post-coloniale e alla Global History due distinti sotto-settori (SH 6_10 e SH 6_11) con finanziamenti autonomi.
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