Metà dell’anno a Milano, l’altra metà nelle montagne della Val D’Aosta, a 1.900 metri. Paolo Cognetti – che ha raggiunto la notorietà come scrittore con Le otto montagne, romanzo poi diventato un film – si divide tra la grande Milano, emblema della crescita, e la piccola Brusson, località Fontane, in Val d’Ayas, sotto il Monte Rosa. Un po’ come certi personaggi dei suoi libri, l'essere nato cittadino e poi cresciuto montanaro gli consente uno sguardo disincantato e competente, oltre che spesso emozionante, sulle trasformazioni dei territori di montagna, sulle terre alte delle aree interne. Uno sguardo che anche nel suo ultimo libro, Giù nella valle, pur nella finzione del racconto letterario, non è mai pura invenzione ma in buona parte realtà sedimentata nell’esperienza. È anche per questo che nel corso degli anni la prosa di Cognetti sembra farsi sempre più concreta e, a tratti, dura, mostrando dentro la storia ciò che il rapporto tra noi e l’ambiente circostante è diventato. Tutto con tratti di efficace nettezza, non senza prese di posizione lineari e fondate, che ormai lo pongono nel nostro dibattito pubblico tra gli interlocutori più interessanti quando si parla di montagna.
In primo piano alcune delle principali questioni che nei decenni, e oggi più che mai, rendono per molti versi malato il nostro rapporto con la montagna
In questo nuovo lavoro, da un paio di settimane uscito sempre da Einaudi, la valle è la Valsesia, Piemonte, anche se non troppo distante dalla Val D’Aosta, e sempre sotto il Rosa. Centoventi pagine che si leggono d’un fiato, mentre la mente da un lato corre lungo la storia, mai scontata, e dall’altro tiene in primo piano alcune delle principali questioni che nei decenni, e oggi più che mai, rendono per molti versi malato il nostro rapporto con la montagna. C’è l’inquinamento delle acque, con ciò che ne consegue per l’ambiente tutto e per le ripercussioni sul nostro cibo e la nostra salute («di fame non ne aveva e comunque gli sarebbe passata, sapendo cosa c’era in quelle trote»). C’è la grande questione dello sviluppo, dove crescita economica e posti di lavoro, dunque potenzialità di abitare o riabitare la montagna, sono intrecciati con lo sfruttamento del territorio e, spesso, con uno sguardo miope e diseguale. Montagne e alvei fluviali scavati per ottenerne materiali da costruzione che, decenni dopo, tornano a riprendersi gli scarti e le macerie delle demolizioni («le macerie invece finivano nelle cave della valle, esaurite e trasformate in discariche»). Un ciclo di doppia distruzione che sembra non tenere per niente conto delle esigenze originarie dei luoghi, appropriandosene a pezzi salvo poi rivomitarli quando ormai diventati inservibili.
«Fontane Fredde» è la località della Valsesia dove Luigi, la guardia forestale che porta su di sé gran parte del libro, vorrebbe rimettere in sesto la casa del padre per andarci ad abitare con la moglie e la figlia in arrivo. È al centro di un discusso progetto per un nuovo comprensorio sciistico. Boschi rasi a terra («laddove passava la pista principale. Disegnava due ampie curve per il piacere di futuri sciatori»), con alberi – larici, abeti, betulle, e tutti gli arbusti del sottobosco – che potrebbero ingaggiare una battaglia con le ruspe ma che alla fine ne uscirebbero comunque sconfitti. Prospettive di crescita, posti di lavoro per gli impianti di risalita, per la ristorazione, per la manutenzione delle piste. Ma anche un progetto che poco guarda al futuro e che già all’epoca pre-euro in cui si svolge il racconto risulta superato. Peccato che quegli stessi progetti continuino a costellare i Piani di sviluppo regionale ancora oggi (e non solo in Piemonte: si pensi a quello che a 2 mila metri, fra Emilia-Romagna e Toscana, vede la costruzione di una nuova seggiovia sul Corno alle Scale, senza Valutazione di impatto ambientale, a dispetto di ciò che il cambiamento climatico ci sta mettendo davanti agli occhi da anni). Progetti che non si può dire non siano frutto di una visione: ma superata, dannosa, limitata; incapace di ripensare un’economia di montagna che non dipenda da un turismo mangia tutto. Dirlo, come ancora una volta fa Cognetti, seppure attraverso gli strumenti del narratore, per molti osservatori significa accodarsi alla schiera degli eco-pessimisti. Se non, senza mezzi termini, degli eco-terroristi. Gente che sembra credere poco o nulla alle capacità dell’uomo di restare sulla via del progresso, costi quel che costi. E che anzi si ostina a sottolineare come continuare a sfruttare oltre ogni logica apparente i territori significhi negarne la disponibilità a chi, a breve, rischia di trovarsi senza più l’essenziale che ne è derivato per millenni. A cominciare dall’acqua, come Cognetti ha ricordato in diverse occasioni; anche affacciandosi, un po’ a disagio, al mezzo televisivo, dove ha provato a spiegare che località Fontane, là dove vive in montagna, dovrebbe chiamarsi ormai Fontane secche, dal momento che ormai di acqua non se ne vede più. Niente acqua o troppa acqua, lo sanno bene coloro che sono rimasti vittime della furia degli elementi (del maltempo, come ancora lo chiamiamo), in Emilia-Romagna o in Toscana, solo per citare le alluvioni più recenti («Voi non sapete cosa può diventare quel fiume dopo un solo giorno di pioggia battente»).
Eco-terroristi. Gente che sembra credere poco o nulla alle capacità dell’uomo di restare sulla via del progresso, costi quel che costi
Si pensi poi al caso della prima pista transfrontaliera del cosiddetto «Circo bianco», la coppa del mondo di sci alpino, che parte nel comune di Zermatt in Svizzera e arriva in Italia in quello di Valtournenche (Cervinia). Il clima cambia? Poco male, le piste le facciamo sempre più in alto, anche a quasi 4.000 metri se necessario, dotandole pure di un bell’impianto di innevamento artificiale, per ogni evenienza. A quell’altezza su un ghiacciaio, peraltro sempre più instabile, ci sono i crepacci e non sarebbe bello se qualche discesista ci volasse dentro. Così prendiamo un paio di ruspe, le portiamo lassù e facciamo in modo che spostino il ghiaccio da una parte all’altra tanto da riempire i crepacci. Tutto vero, tutto già fatto. Per trascorrere una giornata a quelle altitudini, occorreranno 240 euro, ma anche questo avrà i suoi lati positivi: si eviterà il turismo di massa.
«Non tutti sanno di questa funivia: ora si può andare dall’Italia alla Svizzera a volo d’angelo, a 4.000 metri. Andata e ritorno costa 240 euro. Il presidente degli impianti di Zermatt ha detto: è perché vogliamo evitare il turismo di massa. Tradotto: a noi non interessano le famigliole che vengono su con il panino nello zaino, ci interessano gli arabi, i russi, gli inglesi, gli americani. Vogliamo lasciar fuori le famigliole e fare i soldi con i milionari».
Follie che, al confronto, la sventata pista da bob di Cortina per le prossime olimpiadi invernali è una roba da niente. Provi con ragionevolezza e citando fonti e argomenti di tipo scientifico a mostrare l’assurdità di progetti del genere e vieni accusato di essere un eco-terrorista o, nel migliore dei casi, un nemico dello sviluppo.
Che scriva romanzi, Cognetti. Ci farà piacere vederlo in cima alle classifiche della narrativa. Ma che non si immischi in questioni che non lo riguardano: allo sviluppo per il futuro della montagna stanno già pensando altri.
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