«J'sais pas comment sauver l'monde et, si j'savais, j'suis pas sûr qu'j'le ferais». È l’incipit di Civilisation, di Orelsan, ma potrebbe addirsi a Emmanuel Macron, a pochi giorni dal secondo turno delle elezioni presidenziali in Francia.
Accolto all’Eliseo nel 2017 come pacificatore e riformista, il presidente uscente ha accumulato nello scorso quinquennio tanti poteri quante opposizioni. La ricetta per vincere rimane però la stessa per il prossimo 24 aprile: giocare la carta del barrage contro il sovranismo di Marine Le Pen. Senonché, a distanza di cinque anni dal clamoroso 66% con cui aveva eliminato la rivale alla scorsa tornata, il Paese di cui è al vertice ha conosciuto grandi trasformazioni per effetto di eventi epocali. Esogeni, come la pandemia e le conseguenze dell’occupazione russa dell’Ucraina. Endogeni, come le ondate di protesta contro la riforma delle pensioni o la tassa sul carburante, o come la recrudescenza della violenza, la repressione poliziesca e il dilagare del razzismo.
Con un certo ritardo, i partiti hanno parzialmente risentito di questi scossoni, e il voto del primo turno sanziona almeno quattro progressi sostanziali. Primo: Macron ha ritrovato il consenso perso. Anche in Francia, la crisi pandemica e quella militare hanno permesso un avvicinamento della nazione al vertice, al quale è riconosciuta una buona gestione dell’emergenza sanitaria, nonché un valoroso impegno diplomatico nei confronti dell’Ucraina. Insomma, per ritornare a Orelsan, non è stato Macron a salvare il mondo, ma piuttosto il mondo a salvare Macron dalla ghigliottina. Secondo: si registra un allargamento dello spazio a destra. Tiene il Rassemblement National (23%), mentre il neonato Reconquête!, guidato dal giornalista e opinionista Éric Zemmour, si afferma con un significativo 7%. Terzo: più nettamente del 2017, si decreta il seppellimento definitivo dei partiti tradizionali per ciò che riguarda le elezioni nazionali, con l’estromissione dei socialisti e dei repubblicani, rispettivamente al quinto e al decimo posto. Infine, si consolida il voto alla nuova sinistra di Jean-Luc Mélenchon, con il superamento della soglia simbolica del 20% da parte di La France Insoumise.
Uno schema di tipo tripolare sembra scuotere l’equilibrio dei partiti francesi. Ma tutti e tre i poli hanno fragilità evidenti
Per la soddisfazione dei critici del presidenzialismo, uno schema di tipo tripolare sembra scuotere l’equilibrio dei partiti francesi. Un tripolarismo, certo, da condizionare ad alcune precisazioni. Tra tutte, si pensi all’agilità con cui, in quella francese come nel resto delle democrazie occidentali, si muovono i recenti comportamenti elettorali. Oppure alla fragilità che caratterizza ciascuno di questi tre poli: dalle lotte intestine a sinistra – ecologisti compresi – alla competizione tra le retoriche nazionaliste di Le Pen e Zemmour, alla precaria stabilità ideologica di En Marche.
Eppure, anche senza dare garanzie sulla propria durata, l’equilibrio tripolare influenza nel concreto le strategie degli attori, imponendo la necessità di alleanze strumentali, taciute, forzate. Pena la sconfitta. È ciò che emerge nel rituale dibattito televisivo che, anche quest’anno, ha accompagnato i francesi al secondo turno delle elezioni presidenziali – passati ormai quasi cinquant’anni dal primo, che oppose Mitterrand a Giscard d’Estaign. Evento che, malgrado gli 11 milioni di spettatori, si rivela sempre meno seguito e quest’anno poco accattivante sul piano dei contenuti e del linguaggio.
Comunque, non si è potuto fare a meno di notare come ciascuno dei due candidati abbia provato a rivolgersi agli elettori del rivale assente Mélenchon, con l’intento poco mascherato di accaparrarsene una fetta. Un lavoro meno arduo per Emmanuel Macron, al quale non è necessario (e ancor meno gli è richiesto) fingersi ciò che non è: per quanto controverso, il suo ruolo di difensore della Francia e dell’Unione europea contro le derive nazionaliste è un argomento efficace per smarcarsi dalla controparte.
C’è però una parte degli elettori mélenchonisti che è più sensibile alla retorica sovranista, che è radicalmente euro-scettica e anti-atlantista, e soprattutto che disprezza profondamente l’attuale capo di Stato. Anche rivolgendosi a questa parte di elettorato, Le Pen cerca da diversi anni di proporsi come una governatrice affidabile e convincente. Operazione di “dédiabolisation”, così la definiscono soprattutto a partire dall’ultima sconfitta presidenziale. Pertanto, la Marine Le Pen del dibattito di mercoledì sera è trattenuta nei toni, moderata nel linguaggio e nella retorica; per certi versi, espone la propria fragilità nel non replicare quando non è sicura di poterlo fare, mettendo al contempo in cattiva luce il proprio interlocutore, che deve apparire aggressivo e méprisant tanto agli occhi dei fedeli di Le Pen, quando a quelli degli indecisi. Meno parla, meglio è; meno si espone e più rassicura chi intende astenersi – questi, stando agli ultimi sondaggi Ipsos-Sopra Steria, sarebbero intorno al 20%.
Meno parla, Marine Le Pen, e meglio è; meno si espone e più rassicura chi intende astenersi – questi, stando agli ultimi sondaggi, sarebbero intorno al 20%
A proposito, l'astensionismo. Una parte consistente di quanti non andranno a votare domenica, alla prima tornata elettorale, non senza malumori, aveva scelto La France Insoumise. Il partito di Jean-Luc Mélenchon ha infatti lanciato una consultazione interna online all’indomani del primo turno, al fine di contarsi. Sondando così la sensibilità dei votanti di fronte a tre alternative: il voto nullo, il voto utile per il presidente uscente e l’astensione. Il risultato è tripartito: ognuna delle opzioni guadagna il consenso di un terzo dei partecipanti alla consultazione.
Davanti ai segnali contrastanti di un elettorato che, com’è noto, è piuttosto diviso al suo interno, il leader degli insoumis ha dato ancora una volta prova di una strategia politica estremamente spregiudicata, con un’ennesima fuga in avanti. Il pomeriggio di mercoledì, a poche ore dall’inizio del dibattito televisivo, Mélenchon si è presentato ai microfoni di BFMTV con una proposta per i suoi connazionali: «Je demande aux Français de m'élire premier ministre». L’intento è quello di non commettere lo stesso errore di cinque anni fa, quando, partito dal 19% delle elezioni presidenziali, totalizzò solo un misero 11% alle legislative del giugno dello stesso anno. Al contrario, proponendosi come primo ministro, Mélenchon intende chiedere un ulteriore sforzo ai propri sostenitori, provando a capitalizzare il passo in avanti di quest’anno, e così a cristallizzarlo all’interno dell’Assemblea nazionale.
Un’impresa non semplice, innanzitutto perché la legge elettorale di tipo maggioritario, almeno finora, si è rivelata essere uno scoglio insormontabile per gli insoumis, i quali riescono di rado a imporsi in termini assoluti nelle singole circoscrizioni. In secondo luogo, l’appello del leader di sinistra potrebbe non convincere i suoi stessi elettori, che potrebbero giudicare irrealistica una cohabitation di Mélenchon a Matignon con Macron all’Eliseo – e figuriamoci con Le Pen!
Se non altro, tuttavia, l’ex socialista indica una verità tutt’altro che banale. Ossia che il presidenzialismo francese, per garantire un processo democratico sano, ha bisogno di un Parlamento forte e autonomo rispetto alla figura del presidente. Che nel presente e concreto significa non lasciare al presidente uscente, per il quale sono altissime le probabilità di ritorno all’Eliseo, la discrezionalità di salvare o meno il mondo. Non lasciarlo alle derive più autoritarie e decisioniste. Non lasciarlo, una volta compiuto il barrage, a una rincorsa alla retorica nazionalista che tenga a bada l’avanzata xenofoba. E, invece, metterlo di fronte all’evidenza delle necessità sociali, che si palesano rumorose in questi stessi giorni, sfruttando l’attenzione mediatica per le presidenziali. Come le manifestazioni nelle principali città francesi in opposizione ai programmi liberali tanto di Macron quanto di Le Pen, o quelle contro l’inazione climatica, con le immagini affascinanti di Porte Saint-Denis bloccata dai militanti di Extinction Rebellion. Fino alle occupazioni della Sorbona della scorsa settimana, dell’Ecole Normale Superieure e del blocco di Sciences Po. Tutti eventi condannati dai due candidati, ma che indicano un bisogno profondo di partecipazione, e una frustrazione su base generazionale destinata a essere sempre più presente. «J'essaie d'avoir une civilisation, j'peux pas l'faire tout seul, va falloir qu'on l'fasse ensemble», conclude Orelsan.
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