La novità principale della recente legge 199/2016 – su cui interviene Mimmo Perrotta su queste stesse pagine – è quella di incriminare non più solo l’intermediazione ma ormai espressamente anche condotte di utilizzazione, assunzione, impiego di manodopera, coinvolgendo quindi anche la figura del datore di lavoro tra i soggetti attivi del reato, secondo gli auspicii avanzati dai commentatori.
Le condotte punibili hanno una caratteristica anch’essa nuova, poiché prescindono dall’esercizio di violenza e minaccia (che diventano un’ipotesi aggravata) e si caratterizzano per il ricorrere congiunto di due soli elementi essenziali: l’approfittamento dello stato di bisogno e la sottoposizione dei lavoratori a condizioni di sfruttamento.
Dal punto di vista strettamente esegetico-normativo, il problema centrale pare esser quello dalla mancata definizione dello «stato di bisogno» (problema dal quale, verosimilmente, deriverà la maggiore difficoltà di applicazione). Mentre infatti per quanto riguarda lo sfruttamento è almeno mantenuta l’elencazione dei cosiddetti «indici» enumerati nel terzo comma dell’art. 603bis, il secondo requisito essenziale del reato resta indeterminato. L’unica indicazione viene dalla modifica che la novella legislativa ha apportato alla formulazione precedente, eliminando il riferimento allo stato di necessità e lasciando dunque presumere che lo stato di bisogno sia da intendersi in senso più ampio.
Ad ogni modo, proprio queste caratteristiche rendono l’ambito della tutela penale più ampio di quello indicato dall’intitolazione della legge: lo sfruttamento profittatorio del lavoro è infatti prospettabile in qualunque ambito economico e non solo in agricoltura e concerne anche situazioni apparentemente regolari e non di lavoro nero.
È anche introdotta la responsabilità amministrativa da reato degli enti collettivi. Ciò significa che gli enti risponderanno in caso di fatti commessi nel loro interesse dai vertici aziendali o dai loro dipendenti, se non si muniscono di regole organizzative idonee a prevenire questo reato.
Si conferma l’utilizzo a tappeto della confisca; ma sarà tuttavia non semplice definire cosa sia prodotto o profitto di questo reato. Nel momento infatti in cui l’imprenditore diventa soggetto attivo, prodotto e profitto sono un dato macro-economico relativo all’attività di impresa e la loro determinazione in sede processuale porrà certo dei problemi. La confisca delle cose che «servirono o furono destinate a commettere il reato» colpirà primariamente i soggetti immediatamente responsabili delle modalità concrete di lavoro (tendenzialmente, gli autori delle condotte di intermediazione in senso proprio, che nel settore agricolo sono i cosiddetti «caporali»), e restano sul tappeto, per questo, problemi di opportunità: si pensi alle bottiglie d’acqua o agli altri generi di necessità, destinati al sollievo dei lavoratori sfruttati, che di per sé sarebbero oggetto di confisca obbligatoria ma che appunto potrebbe essere non ragionevole confiscare.
Una novità di particolare rilievo, anche se non specificamente penalistica, è rappresentata dal controllo giudiziario dell’azienda. È peraltro difficile pronosticare il grado di effettività di questa disposizione. Si segnala ad ogni modo che la regolarizzazione dei lavoratori è prevista in termini molto generali, nel senso che essa non riguarda solo le vittime del reato, ma tutti coloro che «prestavano la propria attività lavorativa in assenza di un regolare contratto» al momento dell’avvio del procedimento penale. Devono intendersi pertanto ricompresi anche i lavoratori che prestavano la propria attività in deroga alle norme che autorizzano gli stranieri a risiedere e lavorare sul territorio. Quest’ultima segnalazione è importante, dal momento che la legge non è intervenuta sul testo dell’art. 22 che prevede la concessione di un permesso di soggiorno solo ai lavoratori vittime di grave sfruttamento. Pur in assenza di un coordinamento tra le norme, si deve dunque ritenere che la norma sulla regolarizzazione compensi tale mancanza.
È necessario infine rilevare come, ancora una volta, il legislatore abbia ritenuto di affrontare primariamente con lo strumento della repressione penale fenomeni che sono in realtà di natura strutturale, in quanto connessi a modi di produzione, sia agricolo sia non agricolo (si pensi al settore turistico-alberghiero); questa scelta è tanto più problematica in quanto le condotte punibili prescindono dalla commissione di violenza o minaccia, imperniandosi, lo si ribadisce, intorno al concetto di sfruttamento profittatorio.
Conclusivamente, la qualificazione in termini penali di un fenomeno socio-economico (con la conseguente semplificazione binaria: criminali vs. vittime) delinea uno schema che, in quanto semplicistico, rischia di sottovalutare, nella considerazione da parte del diritto, il ruolo sistemico degli altri attori di una filiera della produzione e della distribuzione che si presenta oggi sempre più complessa e frammentata. Una scelta che sembra consegnare ai lavoratori solo armi spuntate sul piano delle tutele del lavoro, sindacali e sociali, e che li riconosce come portatori di diritti solo qualora si prospettino come «vittime».
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