Il Brexit passerà alla storia per svariate ragioni, tra le quali anche la faciloneria degli opinion makers e perfino di studiosi e analisti. Faciloneria che le televisioni hanno ampliato fino a rendere quel che è un non-vero un’evidenza certa. Di che cosa parliamo? Parliamo dell’interpretazione di Brexit come esemplificativa del voto generazionale. Anche su questa rivista sono comparse letture volte ad accreditare Brexit come il voto dei vecchi contro i giovani, in linea con la mainstream opinion. Del resto, la spiegazione anagrafica dei processi sociali ed economici è da qualche anno la valuta corrente più diffusa anche in Italia, quindi applicarla alla Brexit è stato facile, quasi un atto dovuto ‒ dopotutto non sono i giovani Erasmus che vogliono le frontiere aperte e i pensionati che vogliono quelle chiuse? E così si è assistito a una specie di omelia giornalistica: tanto per restare in Italia, i quotidiani hanno raccontato la novella della vecchietta di Bristol che votava Leave e del giovane con Erasmus e in carriera che votava Remain. Poi, finita l’ebbrezza dell’evento immediato si è profilata, sebbene con timidezza, una lettura più articolata, meno anagrafica e più sociale.
I quotidiani hanno raccontato la novella della vecchietta che votava Leave e del giovane che votava Remain. Poi, finita l’ebbrezza dell’evento immediato si è profilata una lettura più articolata, meno anagrafica e più sociale
In un bell’articolo uscito su «Linkiesta» il 29 giugno scorso (e che riprendeva analisi del voto uscite su «The Guardian») Andrea Coccia scriveva: «i fini analisti, i sociologi improvvisati e gli arguti scienziati politici di queste ore hanno preso un abbaglio che manco San Paolo sulla via di Damasco. E abbagliati si sbaglia, e qui lo sbaglio, oltre che macroscopico nel metodo, ha una portata pericolosa. Questa storia, infatti, è falsa come una banconota da 30 euro. Primo, perché non esiste nessun dato reale che può indicare la percentuale di voto per fascia d’età. Nessuno. I dati che sono stati usati per costruire questa storia della lotta generazionale sono il risultato di un’indagine condotta da YouGov tra il 17 e il 19 giugno, ovvero una settimana prima del voto. E sapete quanto è largo il campione degli intervistati da YouGov? 1.652 persone, di cui, gli over 65 erano 73». A partire dal quel sondaggio, precedente al voto, i giornali e i media si predisposero ad interpretare il voto ‒ quale che ne fosse stato l’esito ‒ come un evento generazionale, una guerra civile tra pensionati e salariati o stipendiati, ovvero tra chi si dice che viva sulle spalle dei giovani (i pensionati) e chi, come i giovani appunto, non trova lavoro pur mantenendo i vecchi.
Una lettura comoda per tante ragioni e diversi interessi. Utile senz’altro a celare dietro la fatale natura (la data di nascita) una ragione che naturale non è: la classe. Se l’anagrafe non può essere cambiata (se non eliminando gli anziani, cosa ovviamente improponibile fino a quando i valori cristiani resistono all’assalto dell’utile economico), la questione della classe lo potrebbe, perché totalmente artificiale e frutto di rapporti di potere, di fattori tutti storici e non-naturali. Nell’età delle leggi naturali del mercato, la ragione anagrafica piace prevedibilmente di più. Brexit ha quindi incoronato la «natura» nell’ordine sociale, togliendo dai fattori delle scelte politiche l’elemento dell’ineguaglianza economica e sociale.
Il «Guardian», in analisi accurate del referendum, ha mostrato come solo i dati sociologici sono di aiuto nel comprendere Brexit se comparati con dati precedenti. L’esito dimostra, appunto, che il livello scolastico, la condizione sociale, e la ricchezza procapite (distribuite tra tutte le generazioni) sono di aiuto nell’orientarci a capire chi pensa che le frontiere meno porose siano un baluardo necessario. Classe sociale quindi, non classe d’età. Sempre il «Guardian» esaminava, a titolo esemplificativo, città produttive come Manchester e Liverpool, dove il Remain ha prevalso nelle circoscrizioni benestanti e borghesi (solida middle class) e il Leave ha vinto nelle periferie, tra gli operai, i disoccupati e la classe media meno benestante. Working class versus leading class; non vecchi contro giovani. Nelle città industriali ed operaie, da Birmingham a Sheffield, il Leave ha vinto con percentuali superiori al 60%.
L’insicurezza economica è al centro della Brexit dunque. Raccontare la storia in questa forma, oltre che più corretto, sarebbe anche più utile, poiché, dopo i clamori dell’esito del referendum britannico, i problemi restano tutti, e non solo in Gran Bretagna: e non sono anagrafici. La questione dei confini ‒ sulla quale il premier Cameron ha voluto interpellare il popolo ‒ è una questione direttamente connessa al problema economico, del resto. Infatti, se il diritto fondamentale di libertà di movimento delle merci e della forza lavoro, ovvero di beni concorrenziali, è all’origine dei problemi di tenuta europea, è perché i confini nazionali sono interpretati e utilizzati dagli attori sociali e politici come meccanismi funzionali a una divisione internazionale del lavoro, nella quale non tutti vincono.
I confini nazionali sono interpretati e utilizzati dagli attori sociali e politici come meccanismi funzionali a una divisione internazionale del lavoro, nella quale non tutti vincono
I confini diventano il centro del conflitto tra opposti interessi, nel senso che i lavoratori stranieri (che minacciano la classe lavoratrice di una nazione accettando di lavorare senza la stessa protezione sociale e gli stessi salari della classe lavoratrice nazionale), incontrano gli interessi di quei settori economici la cui competitività si basa sul lavoro a basso costo. Questo conflitto ‒ sul quale si è edificata l’Unione europea a partire dal trattato di Roma ‒ è il cuore di ciò che James Hollifield ha chiamato il «paradosso liberale», il fatto che una società democratica basata sul libero mercato e la libertà di movimento conserva un tratto di chiusura legale al fine di proteggere il contratto sociale tra lavoro e capitale, così riconoscendo che il proprio welfare state presuppone una società relativamente chiusa e socialmente uniforme. Ecco perché l’immigrazione è la sfida vera della cittadinanza europea in quanto campo di un trade-off tra diritti e lavoro: come scrive Hollifield, «gli Stati possono avere più lavoratori stranieri con meno diritti o avere pochi lavoratori stranieri con più diritti, ma non possono avere sia i numeri (il mercato aperto del lavoro) sia i diritti». Brexit rientra assai bene in questo schema economico.
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