Non so quanti lettori sappiano che cos’è Ava. Quelli più giovani potrebbero pensare che sia il nome dell’ultimo androide femminile creato dalla Hanson Robotics. Per quelli nati negli anni Sessanta, come me, è invece indelebilmente legato alla pubblicità televisiva di un noto detersivo, il cui protagonista era il pulcino Calimero e il cui slogan era “Ava come lava!”. Ma per chi ha la ventura di conoscerlo nel suo significato “accademico”, questo nome – anzi, questo acronimo – evoca ben altri scenari.
Anzitutto, una selva di altri acronimi (il più temuto è Cev, ma non vanno sottovalutati né Opis, né Nuv o Pqa o Cpds, per non parlare di Sma e Sua). In secondo luogo, un complesso labirinto di procedure, ciascuna delle quali deve lasciare dietro di sé uno o più verbali o documenti, che rimandano ad altri documenti in un sistema complicato, circolare e spesso ripetitivo, per non dire copiativo. In terzo luogo, una montagna di adempimenti, alla sommità della quale si colloca la Visita di accreditamento, con esame a distanza e in loco da parte di una Commissione di esperti valutatori (ecco la famosa Cev!), evento finalizzato a verificare se l’ateneo soddisfa i requisiti di qualità e base per l’emissione di un giudizio di accreditamento o meno da parte dell’Anvur.
Si potrebbe quindi sostenere, non andando tanto lontano dal vero, che Ava è la costituzione materiale (e, in parte, anche formale) delle università italiane. Contiene, per così dire, i principi fondamentali (la qualità, il miglioramento continuo), la separazione delle funzioni (didattica, ricerca, terza missione), la previsione formale dettagliata di ciò che i vari soggetti istituzionali (gli attori, nel suo linguaggio) devono fare nello svolgimento delle loro funzioni, al fine di garantire i principi fondamentali. In questo quadro, l’Anvur – che del sistema è artefice (sia pure sotto il “velo” del ministero), manutentore e applicatore – è una sorta di legislatore costituzionale e, al tempo stesso, di giudice.
Ma di quale qualità stiamo parlando? Non certo di quella ascrivibile alla tradizione filosofica (se fosse quella, la preferenza andrebbe senz’altro alle galilieiane o lockeane qualità primarie, ossia quantificabili e misurabili). In realtà si tratta della qualità nata in ambito manifatturiero e definita nelle teorie del management. Lo scopo di questi sistemi è controllare e garantire la conformità non solo del prodotto finito, ma dell’intero processo produttivo. In ambito universitario il quadro di riferimento è lo standard Iso 9000:2015, che descrive i fondamenti della gestione della qualità. Chi ha un minimo di familiarità con Ava, il sistema di Assicurazione della qualità (Aq) degli atenei italiani, riconoscerà molti di questi principi e un intero lessico: approccio per processi, “portatori di interesse”, miglioramento continuo, decisioni prese sulla base di evidenze (documentali), soddisfazione.
È ormai il momento di guardare più da vicino Ava, ma per farlo è opportuno soffermarsi brevemente sulla sua genesi. Uno dei primi documenti in cui si parla di “qualità” e di “sistemi di Aq” è il Decreto ministeriale 386/2007 (ministro Mussi), che si colloca a valle del processo di Bologna, con tutto quel che ne è seguito (modello 3+2, ridefinizione degli ordinamenti didattici ecc.). Un paragrafo di questo Dm si intitola Spostare la competizione dalla quantità alla qualità e dà avvio, per una serie di ragioni (anche valide), a quel paradossale processo per cui l’autonomia acquisita dieci anni prima dagli atenei si trasforma lentamente in una condizione di eteronomia (un’eteronomia molto più stringente di quella vigente ai tempi del Superiore ministero). Nel documento possiamo leggere che “l’autonomia implica una competizione regolata fra le Università”, ma che questa non può essere “mirata principalmente ad attrarre numeri maggiori di iscritti in modo sostanzialmente indipendente dalla qualità dell’offerta o, addirittura, abbassandone il livello”. Il baricentro della competizione, continua il Dm, va dunque “spostato sulla qualità dell’offerta formativa, oltre che sulla produttività scientifica delle strutture, verificandole e misurandole, in entrambi i casi, mediante l’autovalutazione degli Atenei e la valutazione esterna dell’Anvur, non appena costituita [l’Anvur era stata istituita nel 2006, ma è diventata, per così dire, operativa solo nel 2010]”.
Successivi Dm definiranno poi in modo sempre più stringente i requisiti per i corsi di laurea. E infine si arriva alla legge 240/2010, con la quale è stato introdotto in Italia un sistema di accreditamento degli atenei e la creazione, nelle università, di sistemi di Aq. Ma è l’Anvur il soggetto chiamato a definire le procedure, i criteri e gli indicatori per lo svolgimento dell’attività di valutazione periodica e a proporli al ministero, che li adotta per decreto. L’Anvur definisce dunque le modalità con cui gli atenei devono strutturare i propri sistemi di Aq e sovrintende all’esercizio attuativo della norma: dunque, come ho già detto, è legislatore – sia pure sotto il velo del ministero – e giudice, in questo caso senza veli.
Il baricentro della competizione va “spostato sulla qualità dell’offerta formativa, oltre che sulla produttività scientifica delle strutture”
E veniamo finalmente ad Ava. L’acronimo significa Autovalutazione Valutazione Accreditamento. L’Anvur ne ha messo a punto una prima versione nel 2014 (Ava1), che è stata rivista nel 2017 (Ava2) e ulteriormente rivista nel 2022 (Ava3). I suoi obiettivi principali sono tre: 1) assicurare che le università eroghino uniformemente un servizio di qualità; 2) assicurare un esercizio responsabile e affidabile dell’autonomia universitaria nell’uso delle risorse pubbliche e nei comportamenti collettivi e individuali; 3) migliorare la qualità delle attività formative e di ricerca. Ava si rifà alle Linee guida europee per l’Aq del 2015 (Standards and Guidelines for Quality Assurance in the European Higher Education Area), secondo le quali la qualità è un concetto non facile da definire, ma sostanzialmente riconducibile al “prodotto dell’interazione tra i docenti, gli studenti e il contesto di apprendimento dell’Istituzione. In pratica, l’assicurazione della qualità garantisce un contesto di apprendimento nel quale il contenuto dei corsi di studio, le opportunità di apprendimento e le strutture didattiche siano adatte allo scopo”. Una definizione, come si vede, piuttosto circolare. Le Linee guida europee fissano anche una serie di principi (preparare gli studenti non solo al loro futuro professionale, ma a una cittadinanza attiva; creare conoscenze avanzate; stimolare la ricerca e l’innovazione) e prevedono che tutti i portatori di interesse debbano essere coinvolti nell’Aq.
Alcuni di questi principi generali, passati in Ava, sono generalmente condivisibili. A fronte di tali premesse, però, Ava è apparso sin dall’inizio viziato da una caratteristica di fondo, cioè da un’ambizione che mi ha fatto pensare, si parva licet, al celeberrimo progetto del seminario estivo tenutosi a Dartmouth nel New Hampshire nel 1956. Si tratta del seminario che segna la data di nascita del campo di ricerca (e dello stesso nome) dell’Intelligenza artificiale. Quale era l’idea di fondo di quel seminario?
“Lo studio procederà sulla base della congettura che ogni aspetto dell'apprendimento o di qualsiasi altra caratteristica dell'intelligenza possa essere descritto in linea di principio in modo così preciso da poter essere simulata da una macchina”.
Proviamo ora a sostituire qualche parola, adattandola al nostro tema:
“Il sistema sarà definito sulla base della congettura che ogni aspetto dell’apprendimento o di qualsiasi altra caratteristica dell’attività universitaria possa essere descritto in linea di principio in modo così preciso da poter essere implementato come una macchina”.
Come è noto, l’approccio di Dartmouth (detto logico-simbolico) funzionava solo nei mondi chiusi della logica o dei giochi, mentre ha fallito ogni volta che lo si è applicato al mondo reale, vista la varietà, le ambiguità e l’imprevedibilità dello stesso. Analogamente, i sistemi di Aq hanno un difetto di fondo, perché l’ingegnerizzazione dei processi universitari non solo è incapace di contenerne la complessità e la variabilità, ma finisce per costringerle in una gabbia d’acciaio che, a differenza di quella immaginata da Weber, non è nemmeno così efficiente. È perlopiù costrittiva e faticosa. E questa caratteristica si è andata accentuando col tempo.
Le attività di preparazione degli atenei alla verifica dei propri sistemi di Aq sono divenute sempre più complicate e onerose, poiché si è verificata una continua crescita di dettami formali
Le attività di preparazione degli atenei alla verifica dei propri sistemi di Aq sono divenute sempre più complicate e onerose, poiché si è verificata una continua crescita di dettami formali. Il che è inevitabile, se la logica è quella di voler descrivere ogni processo in dettaglio, per poterlo poi “misurare”. Con questo tipo di approccio si verifica il fenomeno dell’esplosione combinatoria. Di qui il paradosso per cui ogni nuova versione di Ava è più complicata, anche se l’Anvur afferma (excusatio non petita…) che il sistema è stato semplificato. Si prendano i seguenti passi tratti, rispettivamente, dalle Linee guida ad Ava2 e ad Ava3:
“Innanzitutto, si è proceduto a una revisione dei Requisiti e degli Indicatori di qualità e a un ripensamento complessivo della loro articolazione al fine di recepire i principi enunciati dagli Esg 2015 e a realizzare una struttura più snella e compatta […]”
“Come prima attività, l’Anvur ha proceduto a una riorganizzazione e revisione dei Requisiti e degli aspetti da considerare e a un ripensamento complessivo della loro articolazione, al fine di realizzare una struttura più snella e compatta […]”.
In realtà, senza scendere nei dettagli, mi limito a osservare quanto segue: in Ava2 avevamo quattro Requisiti, articolati a loro volta in 11 Indicatori e in 34 Punti di attenzione. In Ava3 i Requisiti vengono ridenominati Ambiti di valutazione e passano da 4 a 5; gli Indicatori sono sostituiti dai Punti di attenzione, che sono 39; e i Punti di attenzione si articolano in 84 Aspetti da considerare. Al di là della terminologia (qui la fantasia burocratica dà il meglio di sé) si passa da uno schema 4-11-34 a uno 5-39-84. Come questo possa essere più snello e compatto è un mistero ineffabile. Né va dimenticato che, nel modello finale, gli Indicatori ricompaiono a sinistra degli Aspetti da considerare e sono talvolta affiancati da “Altri indicatori”. Quindi abbiamo una sorta di movimento a fisarmonica, che parte dai 5 Ambiti di valutazione, si allarga in 39 Pda e si espande in ulteriori 84 Adc, per poi contrarsi in 37 Indicatori e chiudersi in 9 Altri indicatori.
Rispondere ai quesiti (poco importa che manchi il punto interrogativo) e ai molteplici aspetti in cui si articolano implica una enorme sequenza di operazioni di cui spesso sfugge il senso, e che devono essere illustrate in un amplissimo numero di documenti, che la stessa Cev non può leggere in modo accurato, finendo per svolgere un vaglio solo formale. Dal canto loro, gli atenei cercano di superare con il miglior risultato, o il minor danno, una procedura di cui si sente il notevole peso senza vederne consistenti vantaggi. E per raggiungere questo risultato impiegano non poche risorse (economiche e umane) per mandare docenti e amministrativi a seguire i corsi di formazione e/o aggiornamento sul modello Ava (conflitto di interessi?).
Alla luce di queste considerazioni la domanda è la seguente: quanto è migliorata la qualità degli atenei da quando si applica Ava? E quali costi ha comportato (e comporta) l’applicazione di questo sistema? Mi riferisco ai costi per le finanze pubbliche e ai costi “umani” in termini di tempo dedicato dai docenti a queste attività. Sarebbe interessante ascoltare qualche risposta in merito; risposta – questa volta è il caso di dirlo – basata su evidenze documentali, di tipo quantitativo. Attendiamo con fiducia.
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