Sono trascorsi esattamente ottant’anni dall’attacco giapponese del 7 dicembre 1941 alla base navale statunitense di Pearl Harbor, presso le Isole Hawaii. «A date which will live in infamy», come la definì il presidente Franklin Delano Roosevelt, il quale chiese al Congresso di riconoscere lo stato di guerra con l’impero giapponese. Un’incursione improvvisa ma programmata da tempo, nelle parole di Roosevelt, avvenuta in una fase in cui erano ancora in corso colloqui per mantenere la pace fra i due Paesi. L’inquilino della Casa Bianca sottolineò come non importasse quanto tempo ci sarebbe voluto, gli Stati Uniti avrebbero riportato una vittoria assoluta grazie alla determinazione del proprio popolo e delle proprie Forze Armate. E così fu effettivamente, seppur dopo quasi 4 anni di duri combattimenti e grazie alla decisione di ricorrere a due bombe atomiche per porre fine al conflitto nel Pacifico, nell’agosto 1945. Secondo la storica Emily S. Rosenberg, nell’enfatizzare il sicuro trionfo dopo l’attacco, il discorso di Roosevelt richiamava a piene mani la retorica della frontiera e del «sacrificio» dei 200 texani trucidati nel 1836 nella missione di Alamo da parte delle truppe del generale messicano Antonio López de Santa Anna, nonché quello del Generale Custer ucciso con i suoi commilitoni dai nativi americani a Little Big Horn nel 1876. Il «martirio» dei morti alle Hawaii sarebbe stato pertanto vendicato come era avvenuto per i texani contro i messicani e per il biondo americano Custer contro le «barbariche» popolazioni native.
La memoria dell’attacco giapponese ha condizionato il dibattito pubblico, tanto che dopo l’11 settembre 2001 George W. Bush parlò degli attentati come di una “infamia” o della “Pearl Harbor del XXI secolo”
A distanza di ottant’anni, gli eventi del 7 dicembre 1941 sembrano indicare almeno tre eredità che hanno attraversato gli Stati Uniti postbellici. In primo luogo Pearl Harbor come «monito», ovvero l’idea che fosse necessario rimanere vigili per difendere un Paese il cui territorio in precedenza non era mai stato aggredito (se si esclude l’invasione inglese nella guerra del 1812-1814). Da qui l’esigenza, dopo il conflitto, di dotarsi di strutture per prevenire nuove sorprese e garantire la sicurezza nazionale. Organi consultivi presidenziali come il National Security Council, o agenzie come la Central Intelligence Agency e la National Security Agency vennero pertanto pensate nell’ottica di una scrupolosa raccolta e analisi delle informazioni, anche al fine di affrontare l’incipiente minaccia sovietica. Gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 rinnovarono, però, la paura per la «vulnerabilità» del territorio nazionale, spingendo a nuovi ripensamenti. La memoria dell’attacco giapponese condizionò il dibattito pubblico, tanto che George W. Bush parlò degli attentati come di una «infamia» o della «Pearl Harbor del XXI secolo». Di nuovo si favorì una ridefinizione dell’assetto di sicurezza nazionale con la creazione del Department of Homeland Security, mentre le celebrazioni alle Hawaii del 7 dicembre 2001 assunsero un altissimo valore simbolico, al punto che, sull’onda di un rinnovato e diffuso patriottismo, vi parteciparono molti familiari dei morti negli attacchi di New York e Washington, ma anche tanti poliziotti e pompieri che avevano prestato soccorso.
Pearl Harbor esacerbò sentimenti anti-asiatici largamente diffusi, che prima della guerra avevano trovato applicazione nella decisione del 1924 del Congresso statunitense di bloccare del tutto l’arrivo di migranti dal Giappone
Pearl Harbor ricorda poi le «fragilità» della democrazia statunitense, come dimostrato dal trattamento riservato alla minoranza giapponese. L’attacco esacerbò sentimenti anti-asiatici che erano largamente diffusi nel paese da decenni, che prima della guerra avevano trovato applicazione nella decisione del 1924 del Congresso statunitense di bloccare del tutto l’arrivo di migranti dal Giappone. I pregiudizi razziali e la paura di un nemico considerato «brutale» furono poi alla base della decisione di internare in massa circa 120 mila giapponesi americani, incluse le seconde generazioni che si sentivano in realtà più legate alla cultura locale che a quella giapponese. Paradossalmente furono risparmiati i nipponici residenti alle Hawaii, i quali costituivano la spina dorsale dell’economia dell’arcipelago. Tale decisione entrava palesemente in contrasto con i propositi liberali di Roosevelt di lottare contro i totalitarismi; tuttavia, solo in seguito alle rivendicazioni di un movimento di attivisti di origine giapponese, nel 1988 il presidente Ronald Reagan firmò il Civil Liberties Act, legge che pose ufficialmente le scuse per le politiche di internamento promosse dal governo americano negli anni della guerra, stabilendo anche un risarcimento di 20000 dollari per ogni internato di origine giapponese ancora in vita. Tre anni dopo l’esperienza dell’internamento venne memorializzata con il riconoscimento come sito di interesse nazionale dell’ex campo di detenzione di Manzanar, in California. Il ricordo di quanto avvenuto ai giapponesi non impedì, però, dopo l’11 settembre il perpetuarsi di nuove discriminazioni a spese di una minoranza adesso nell’occhio del ciclone, quella dei musulmani d’America, identificati come potenziale «quinta colonna» del terrorismo internazionale.
Infine, Pearl Harbor è stato, e in parte continua ad esserlo, un episodio la cui memoria ha causato molte tensioni fra Stati Uniti e Giappone, sebbene le due nazioni siano fedeli alleati dagli anni Cinquanta del Novecento. Le rispettive posizioni sono rimaste a lungo inconciliabili rispetto alle reciproche richieste di porre delle scuse per l’attacco e per l’utilizzo delle atomiche nordamericane sul Giappone, Paese in cui si è perpetuata spesso l’immagine del popolo come «vittima» dell’olocausto nucleare. Negli anni Ottanta l’affermarsi del Giappone a potenza mondiale ha fatto temere negli Stati Uniti una «Pearl Harbor economica»; la paura di una perdita di status internazionale a molti è sembrata materializzarsi con la massiccia presenza di ricchi turisti giapponesi che visitavano in quel periodo le Hawaii e lo U.S.S. Arizona Memorial, che commemora l’affondamento della omonima nave da parte dell’aviazione nipponica. Nel 1991, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’attacco, propositi di riconciliazione della memoria vennero nuovamente frustrati dalla ferma volontà delle due parti di non riconoscere le proprie responsabilità, al punto che il presidente George H.W. Bush giunse ad annullare un viaggio ufficiale in Asia. Nel 1994 fu invece l’imperatore giapponese Akihito che, nel corso di un tour negli Stati Uniti, rinunciò a una visita al memoriale alle Hawaii per timore dei malumori nel suo Paese. L’anno dopo, infine, la polemica si ripropose in occasione di una mostra sulla bomba atomica organizzata dallo Smithsonian Institute di Washington, la quale provocò le ire di molti reduci statunitensi e di vari conservatori in quanto apparentemente troppo simpatetica rispetto alle sofferenze del popolo giapponese; la risposta degli organizzatori fu di esporre al pubblico solamente l’Enola Gay, ovvero il bombardiere dal quale venne sganciata l’atomica su Hiroshima.
Una riconciliazione della memoria fece un grande passo in avanti nel 2016 grazie a Barack Obama e al primo ministro giapponese Shinzo Abe. Alla visita del presidente democratico a Hiroshima il leader nipponico fece seguire la sua in dicembre a Pearl Harbor, dove rese omaggio ai caduti statunitensi. Tuttavia, nonostante i toni concilianti e amichevoli, i due decisero di non porre alcuna scusa ufficiale per le azioni belliche compiute dal proprio paese a spese dell’altro.
Riproduzione riservata