Se c’è una dimensione comune nei film di Venezia 78, di là dai temi e dalle provenienze geografiche, è il rilancio forte, fortissimo, della radicalità del Cinema, un’alterità verso il presente che ha di fatto un valore politico. Rispetto al dibattito sulla stampa o nei social sempre all’inseguimento della polemica di giornata, i film della Mostra che si conclude sabato 11 settembre coltivano pensieri lunghi e sguardi marginali, eccentrici, sovversivi nei confronti di tale malintesa «attualità», con un ricorrente approccio antropologico e a volte quasi «archeologico» perché in grado di scavare nel profondo della storia, delle culture o della psiche. La pandemia e il persistente stallo del cinema in sala (surrogato sul versante industriale dal boom delle piattaforme streaming) hanno mortificato il piacere comunitario di ritrovarsi intorno a un’esperienza artistica. È un ulteriore declino della polis, ossia della vita pubblica nelle sue forme contemporanee già minate dal lungo tramonto novecentesco. Ecco invece che Venezia ribadisce la necessità e la bellezza di vedersi per guardare un film, di discuterne all’uscita, di riconoscersi in una passione non solitaria, anche grazie alla modalità dell’ingresso con il green pass (vaccino o tampone appena fatto), dopo la coraggiosa edizione 2020 quando la Biennale realizzò l’unico festival internazionale a svolgersi in presenza.
Stiamo vivendo un cambio di stagione letteralmente "virulento" e grandi autori o giovani registi indagano le radici della crisi dei paradigmi, tornando sui propri passi o rivisitando la tradizione
Stiamo vivendo un cambio di stagione letteralmente «virulento» e grandi autori o giovani registi indagano le radici della crisi dei paradigmi, tornando sui propri passi o rivisitando la tradizione. È il caso del settantaduenne Pedro Almodóvar, già Leone d’oro alla carriera nel 2019, che fu il vessillifero della Movida, una parola presto adottata in molte lingue del mondo, ma che sulle prime designò la stagione libertaria esplosa poco dopo l’interminabile dittatura franchista (1939-1975), all’insegna della voglia di vivere madrileña e del bisogno di superare con allegria il passato. Ebbene nel film di apertura di Venezia 78, Madres paralelas, Almodóvar ibrida il melodramma su uno scambio di neonati in culla con la ricerca dei resti delle vittime di una strage avvenuta durante la guerra civile. Potente e pensosa elegia sulla Storia spagnola, Madres paralelas, a suo modo rinverdisce lo slogan femminista «Il personale è politico» e quelle spoglie, infine rintracciate grazie all’ostinazione della protagonista Penélope Cruz, parlano al presente, alle fosse comuni di oggi e al bisogno di memoria che si appanna nonostante le Giornate stabilite per legge nel nostro calendario.
Sono «memorie dal sottosuolo», per dirla con Dostoevskij e la sua spietata critica del razionalismo, che ritornano in numerosi altri film veneziani. Mario Martone in Qui rido io mette in scena lo struggente autunno del patriarca Eduardo Scarpetta (un superlativo Toni Servillo), l’attore e commediografo che «uccise» Pulcinella sostituendolo nel cuore del pubblico con il suo Felice Sciosciammocca, e concepì nel frattempo un autentico clan di mogli, amanti, figli legittimi ed illegittimi tra i quali i tre fratelli De Filippo. Martone racconta lo scontro in tribunale fra Scarpetta e Gabriele D’Annunzio che sporse denuncia per una parodia partenopea de La figlia di Iorio, una diatriba in cui giocò un ruolo nientemeno che Benedetto Croce. In controluce, grazie all’attitudine di Martone per lo scandaglio dell’identità italiana (Noi credevamo, Il giovane favoloso), il film analizza il rapporto tra élite e popolo, nonché tra tragico e comico agli albori del Novecento, laddove Napoli è un prisma che riflette e anticipa i conflitti a venire. La stessa Napoli è attraversata da una linea d’ombra luminosissima, diremmo memore di Ferito a morte di Raffaele La Capria, in È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, il regista premio Oscar per La grande bellezza, stavolta molto meno «barocco» del solito. Anche qui c’è lo scavo e l’emersione delle ragioni della fuga del giovanissimo protagonista a Roma (autobiografia del regista) e ancor prima della sua indecisione esistenziale: il dolore e lo splendore di un ragazzo rimasto orfano e per certi versi «salvato» da Maradona, la cui celebre frase su un gol di mano offre il titolo al film. È stata la mano di Dio è il nostos di Sorrentino, un ritorno a casa baciato dalle epifanie del «munaciello», il monaco bambino, lo spiritello dispettoso del Bene che aiuta il Nostro a superare la paralisi della sofferenza, a intraprendere la sua strada.
La dialettica provincia-capitale vibra parimenti in Illusions perdues del francese Xavier Giannoli dall’omonimo romanzo di Balzac, tradotto sullo schermo con libertà eppure con fedeltà estrema al senso del testo: la critica della stampa, la modernità tumultuosa e fasulla, il capitalismo ottocentesco faustiano e spietato, l’ambizione di un giovane poeta e i suoi amori, il tradimento delle amicizie e la fine delle speranze, ma, soprattutto, il cuore che ci vuole per vivere oltre il disincanto... Il protagonista perde tutto e comprende che solo il profitto governa la comédie humaine, non si vive dunque di speranze. E se non è politica questa, cosa mai lo sarebbe?
Il protagonista perde tutto e comprende che solo il profitto governa la comédie humaine, non si vive dunque di speranze. E se non è politica questa, cosa mai lo sarebbe?
V’è nell’opera di Giannoli la capacità di andare alla scaturigine del nostro mondo, oggi turbato e smarrito. La medesima ricerca assume diverse declinazioni in altri film di Venezia 78. In The Card Counter di Paul Schrader lo straordinario Oscar Isaac è un ex militare inquirente dell’esercito Usa assediato dai fantasmi delle torture, mentre sul versante russo Il capitano Volkonogov è scappato della coppia Natasha Merkulova e Aleksey Chupov – a proposito di Dostoevskij, magari con un’eco di Gogol – mette in scena un carnefice dell’era staliniana disperatamente in cerca del perdono da parte di almeno una delle sue vittime. E se il western crepuscolare Old Henry di Potsy Ponciroli scompone la mitopoiesi americana della frontiera e dei suoi eroi (Billy the Kid), La macchina delle immagini di Alfredo C. dell’italo-albanese Roland Sejko si avvale di materiali di repertorio inediti relativi al fascismo (per esempio, come veniva inquadrato Mussolini in piazza Venezia dagli operatori dei cinegiornali) per raccontare la fine della Seconda guerra mondiale in Albania e il contrastato rientro in patria, sulle coste pugliesi, dei 27.000 reduci in divisa e civili italiani, gli ex occupanti.
Film puntualmente sull’orlo di un abisso, come si vede. Non manca una contemplazione estatica della voragine e della vertigine in Il buco di Michelangelo Frammartino girato nei pressi o all’interno dell’Abisso del Bifurto nel Pollino, il Grande Vuoto esplorato per la prima volta da un gruppo di speleologi piemontesi nel 1961. Un film davvero in cerca di «profondità», illuminato con sapienza da Renato Berta, il direttore della fotografia prediletto da Huillet e Straub, De Oliveira, Gitai, autori che insieme a Kiarostami sono evidentemente fra i riferimenti di Frammartino nella tenace ricognizione di una pastorale perduta, ma anche della verticalità malata del moderno (nel montaggio ci sono dei filmati d’epoca sul Pirellone milanese). La tensione verso il fuori campo e il non visibile è ovunque in Il buco e definisce il corpus della realtà con una rara precisione e con paradossale empatia. Del resto, decostruire è una passione calda, estraniarsi dalla tirannide del presente è forse l’unica appartenenza al mondo ancora possibile e le «regole del gioco» talvolta vanno sovvertite per restare fedeli al senso nascosto delle cose. Per dirla con un ultimo titolo, è in fondo questo El gran movimiento rivelato da Venezia 78. Il regista trentaseienne boliviano Kiro Russo in El gran movimiento attraversa La Paz, una distesa di favelas a 3600 metri d’altitudine, mostrandone «le vite invisibili» e fra loro quella di un giovane minatore ribelle che si ammala e guarisce grazie alle parole arcaiche di uno sciamano. Un film marxista e tribale, combattivo e poetico lungo il confine tra la Ragione e gli sguardi altri; insomma, non proprio Instagram.
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