Nell’ambito delle varie celebrazioni per il centocinquantenario dell’Unità italiana, sarebbe importante riscoprire opere nate con l’intento di raccontare la parabola storica del nostro Paese in un’ottica precisa ma non ristretta, locale ma non avulsa da un contesto più generale: opere "epiche", spesso dimenticate, nel senso che a questa categoria si può assegnare dopo la diffusione del grandioso modello di romanzo-epos, rappresentato in primis da Guerra e pace. Una di queste opere è sicuramente Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli. Una grande epopea padana che ebbe per i fondatori del "Mulino" un ruolo centrale.
Uscì a puntate sulla “Nuova Antologia” e quasi contemporaneamente in volume tra il 1938 e il ’40: e non a caso, il romanzo si apre “in Russia nel 1812”, ovvero nello scenario in cui si erano svolte le azioni decisive del capolavoro di Tolstoj. Ma la prospettiva non è quella dello scontro fra la concezione russa-fideistica e quella francese-illuministica dell’agire umano nella storia, bensì quella dei poveri soldati italiani al seguito di Napoleone, fra i quali viene ben presto in primo piano il ferrarese Lazzaro Scacerni, che potrà acquistare un mulino di fiume, il San Michele, grazie però al ricavato di un furto sacrilego, avvenuto poco prima della battaglia della Beresina.
Qui si coglie un primo aspetto della concezione storica di Bacchelli: le azioni sono sempre soggette a un giudizio morale e a volte moralistico, che viene reso esplicito da frequentissimi inserti del narratore, sin troppo generoso nel fornire le motivazioni del suo racconto. Lo scrittore bolognese non nascondeva i suoi ideali, classicheggianti in letteratura e conservatori in politica, e questo negli ultimi decenni gli ha certamente nuociuto, dopo l’apogeo raggiunto con l’Opera omnia pubblicata da Mondadori a partire dal 1957, in decine di volumi e migliaia di pagine. L’essere stato intrinsecamente estraneo a ogni tipo di avanguardia e di sperimentazione lo ha condannato a un progressivo oblio, sino a una triste e ingiusta decadenza anche personale.
Ma oggi possiamo rileggere con maggiore equilibrio la vasta produzione bacchelliana, che conosce molti più registri e toni di quanto di solito non si ricordi. Basterebbe ricordare i tanti scritti di tipo satirico-grottesco, memori di Swift e di Gogol, oppure i saggi romanzati come La congiura di don Giulio d’Este (1931), in cui l’amata Ferrara viene descritta, ai tempi di Ariosto, nel suo splendore artistico ma anche nelle miserie tipiche degli intrighi di potere "all’italiana". Bacchelli ha spesso elogiato uomini politici moderati, come Giolitti, e ha cominciato una riflessione non solo retorica sul Risorgimento già negli anni Trenta, legando fortemente i destini italiani a quelli europei.
Anche nel Mulino le battaglie per l’Unità sono ben presenti, anzi sono al centro dell’opera: e come in un altro modello di Bacchelli, il Verga romanziere e novelliere, non vengono nascoste le delusioni e le tragedie, culminate per gli Scacerni con la morte del giovane Lazzarino a Mentana. Ma un’analisi prettamente politica non emerge: semmai, si coglie una sorta di fatalismo riguardo alle vicende umane, scandite, oltre che dalle guerre, anche dalle catastrofi naturali, come le inondazioni del Po, che condizionano le vicende degli Scacerni, buoni o malvagi, come l’avido Giuseppe, detto "Coniglio mannaro".
Un’analisi prettamente politica non emerge: semmai, si coglie una sorta di fatalismo riguardo alle vicende umane, scandite, oltre che dalle guerre, anche dalle catastrofi naturali, come le inondazioni del Po, che condizionano le vicende degli Scacerni, buoni o malvagi
In ultima istanza, la concezione stessa dell’esistenza umana come un fiume che scorre incessantemente risulta la forza e il limite dell’intera opera di Bacchelli. È una concezione che permette un racconto largo e fluente, ma in Italia è invece il modello sincopato e linguisticamente risentito di Gadda a prevalere. È una concezione che permette grandi affreschi, ma non di approfondire le relazioni sociali e le psicologie, come nel più grandioso dei romanzi familiari del primo Novecento, i Buddenbrook. È una concezione che porta lo scrittore bolognese a raccontare cento anni di vicende italiane, arrivando sino alla vittoria sul Piave nel 1918: lasciando però da parte, caduto sul campo l’ultimo Lazzaro Scacerni, tutto il dopoguerra e la dittatura fascista, sino appunto al 1940.
Forse Bacchelli avrebbe dovuto avere il coraggio, magari proseguendo il suo capolavoro, di indagare fra le pulsioni "italianissime" che portarono alla vittoria di Mussolini e a un’altra guerra mondiale, con il riscatto sancito dalla Resistenza e dalla fase costituente: le vicende del Mulino sono invece fissate in un tempo conclusosi ben prima della fase dell’industrializzazione e degli sviluppi della società di massa. Ma oggi questa sua evidente inattualità non deve più impedire di cogliere il vasto respiro di un progetto che comunque riesce a suggerire fili di continuità tra momenti in apparenza lontani e distinti della storia italiana. Non sarà allora un caso che Antonio Pennacchi ha citato fra i modelli del suo fortunato Canale Mussolini (2010) proprio Il Mulino e un’altra grande opera "fluviale" quale Il placido Don (1928-40) del Nobel Michail Šolochov.
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