Ministri tecnici, cioè esperti delle materie loro affidate, possono essere molto utili per disegnare interventi ben progettati e per assicurarne l’attuazione, nell’ambito di una complessiva linea politica dell’esecutivo di cui fanno parte, che viene resa nota ai cittadini e approvata dal Parlamento. Oppure l’azione di ministri tecnici (o dei vertici burocratici dei ministeri, o di strutture ad hoc) può essere utile per mascherare dietro provvedimenti apparentemente neutrali, motivati con la competenza di chi li redige e relativi ad aspetti molto complessi dell’azione di governo, scelte politiche importanti che per convenienza si preferisce non mettere eccessivamente in luce.
Affidare il Piano di Rilancio a ministri «tecnici», come pare stia avvenendo, pone davanti a questo dilemma. Sarà il presidente del Consiglio a esprimere una chiarissima linea politica, in relazione ai grandi indirizzi tematici, territoriali, di metodo, del Piano, e a sottoporlo poi a un dibattito aperto, articolato, attento, nel Parlamento e nel Paese o saranno delegati i tecnici a dettagliarne le misure, da sottoporre a una rapida e «bulgara» approvazione delle Camere, definendo così scelte che influenzeranno il futuro dell’Italia per almeno un decennio?
Certo è che il Piano è un documento tecnicamente assai complesso, molto ampio, e nel quale i dettagli, la precisa articolazione di ciascuno dei progetti, sono decisivi. Nel quale è molto facile inserire, magari in un paio di righe, decisioni molto importanti senza che risaltino a prima vista. Vedremo quel che succederà. Da un lato c’è la speranza che l’indubbia statura del nuovo premier, cui sono state affidate a occhi chiusi le sorti del Paese, consenta di rispettare concretamente l’attuale impostazione generale del Piano; che, coerentemente con l’impostazione comunitaria del Next generation EU, mira a ridurre significativamente le disparità di genere, generazionali e territoriali. Dall’altro c’è la certezza che gli interessi economici e i territori più forti del Paese mirano, anche per le oggettive difficoltà create da lunghi anni di austerità e dai danni della pandemia, ad appropriarsi della parte più consistente delle risorse. Rilanciando per l’ennesima volta la retorica dell’opportunità di investire prioritariamente su interessi, imprese e regioni capaci di far ripartire l’Italia intera; nell’ipotesi, mai verificata nella realtà e sempre rilanciata, che il benessere dei più forti poi «sgoccioli» (trickle-down) verso i cittadini e i territori più deboli.
Una circostanza accresce le preoccupazioni. Nella recente storia della politica e della politica economica italiana, in diverse circostanze decisioni apparentemente tecniche, apparentemente minori, magari nascoste in un qualche decreto ministeriale, hanno determinato scelte della massima rilevanza.
Pensiamo all’università. Lì si è verificata una compressione selettiva e cumulativa, cioè un forte taglio di risorse, una loro allocazione territoriale assolutamente asimmetrica, l’introduzione di nuovi meccanismi di valutazione, la chiusura al reclutamento di nuovi ricercatori e l’esplosione del costo degli studi per le famiglie (che ha determinato in passato una forte caduta delle immatricolazioni). Queste scelte così rilevanti, che hanno cambiato il volto degli atenei italiani, non sono tanto il frutto della legge Gelmini approvata dal Parlamento nel 2010. Esse discendono principalmente da decreti e determinazioni dei ministri tecnici che si sono succeduti nei governi Monti, Letta e Renzi: sono stati loro a promuovere e favorire il vertiginoso aumento della tassazione universitaria, la circostanza che il suo gettito sia un elemento di «merito» per gli atenei (che sono localizzati nei territori più ricchi, che reclutano studenti dalle famiglie più abbienti, che aumentano di più le tasse) per ottenere nuovi docenti. O il fatto che il finanziamento delle singole università sia stato legato a parametri di «merito» cambiati tutti gli anni e stabiliti dopo che il decisore aveva avuto a disposizione tutti i dati necessari, o la circostanza che un’istituzione apparentemente tecnica, l’Agenzia per la valutazione della ricerca (Anvur) abbia deciso chi e come debba fare ricerca nel nostro Paese, o i criteri per cui si possa fare carriera nell’accademia. Grazie ai tecnici, per quasi un decennio l’Italia ha seguito una politica delle poche università di eccellenza (da cui essi tecnici nella quasi totalità provenivano), con docenti auto-definitisi di eccellenza, per le famiglie più abbienti, senza alcuna discussione pubblica o approvazione parlamentare.
Pensiamo ai meccanismi di finanziamento dei comuni. Alla luce della riforma costituzionale del 2001, il Parlamento ha varato nel 2009 la legge 42, complessivamente equilibrata. Ma poi la sua attuazione è passata ai tecnici. E così nel corpo di complicatissimi documenti e nel lavoro nell’ombra di commissioni ben composte sono maturate decisioni di assoluta valenza politica. Come quella di stabilire che i «fabbisogni standard», cioè il finanziamento delle politiche che le Amministrazioni comunali mettono in atto, dovessero sostanzialmente corrispondere ai livelli dei servizi già erogati, perpetuando all’infinito le notevoli disparità esistenti all’interno del Paese; anzi stabilendo addirittura che essi dovessero per principio essere diversi da regione a regione. O, con un’interpretazione ardita ma coronata da successo, come quella di decidere che il fondo di perequazione comunale, destinato ai municipi meno ricchi e quindi con minor gettito fiscale, dovesse compire una perequazione all'«integrale» al 45%. Tutte decisioni prese da tecnici con precisi indirizzi politici; delle quali i cittadini sono rimasti pressoché totalmente all’oscuro, le forze politiche non hanno mai discusso e se ne è cominciato a sapere qualcosa solo grazie alla tenacia di un giornalista d’inchiesta. Ancora con il governo Gentiloni, l’opportuna decisione di potenziare gli asili nido si è tradotta in un provvedimento tecnico che graduava i nuovi finanziamenti ai comuni in base al numero di bambini che già li frequentavano. Certo, ci sono anche tecnici valentissimi come il nuovo presidente della Commissione tecnica Fabbisogni standard che documentano lo stato delle cose, e provano a operare con un maggiore senso di equità, ma la strada da compiere per invertire quelle tendenze è lunghissima.
Pensiamo alla sanità. Dove i necessari interventi presi già dal 2006 per contrastare gli squilibri di bilancio di alcune regioni del Centro Sud si sono tradotti in interminabili «Piani di Rientro», gestiti da tavoli tecnici con l’utilizzo di una complessa gamma di indicatori, che hanno mirato ad obiettivi di riequilibrio finanziario trascurando del tutto quantità e qualità dei servizi disponibili per i cittadini. Si noti, incidentalmente, che per i comuni così come per la sanità nessuna norma vale per le regioni a statuto speciale (con l’eccezione della Sicilia nell’ultimo caso) e le province autonome, isole di territorio nelle quali non valgono le stesse regole del resto del Paese, i comuni hanno risorse assai più cospicue e i sistemi sanitari continuano a registrare deficit di bilancio, come documentato dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio . Così le regioni più deboli hanno visto un continuo depauperamento soprattutto del loro personale, e sono arrivate alla pandemia in condizioni tali per cui sono spesso finite, negli ultimi mesi, in zona arancione o rossa non per la diffusione del virus, ma per la scarsità delle proprie dotazioni umane e strumentali. I tecnici si sono occupati del grande tema della mobilità di pazienti dalle regioni con meno sanità a quelle più forti: ma, coerentemente, lo hanno fatto per accrescerla, potenziando il numero di posti letto nelle regioni di destinazione. Un settore, quello della sanità, dove i meccanismi di finanziamento proposti dai tecnici – ben attenti agli interessi in ballo – tengono giustamente conto dell’anzianità della popolazione, ma ignorano del tutto i fabbisogni di salute che derivano dalle condizioni di povertà di vaste fasce di popolazione o dalla diffusione delle cronicità. E nel quale, complessivamente, grazie a una serie di scelte tecniche, la quota di spesa delle famiglie sul totale dei consumi sanitari è nettamente superiore alle medie europee, e la salute molto più collegata che altrove al reddito.
Dunque, benissimo le competenze e le capacità dei tecnici del nuovo governo. Ma massima attenzione alla loro concreta trasposizione normativa, specie alla luce della straordinaria dimensione e importanza del Piano di Rilancio. Checché se ne possa dire, il Piano di Rilancio è e non può che essere un grande documento politico. La speranza è che così sia presentato e discusso in Parlamento e nel Paese. Il timore è che possa proseguire la tradizione, cui qui si è fatto solo qualche accenno, di un «governo dei tecnici» che hanno compiuto e compiono scelte fondamentali per il nostro presente e il nostro futuro, mascherandole dietro complessi documenti all’interno dei quali, in poche righe, veniva deciso come dovessero essere bilanciati o premiati interessi molto concreti e come dovesse conseguentemente cambiare il Paese. Suggerendoci di tacere fiduciosi, dato che essi e solo essi «sanno» e agiscono per il meglio.
Riproduzione riservata