Il Recovery Plan (RP) promosso dall’Unione europea per sostenere la ripresa dell’economia dopo lo choc del Coronavirus è un’opportunità cruciale e forse irripetibile per il nostro Paese. Si tenga conto che ai circa 200 miliardi del RP se ne aggiungono altri 40 circa del nuovo ciclo dei fondi strutturali “ordinari” (2021-2027).
Nei mesi scorsi si è a lungo parlato, anche nelle commissioni parlamentari, soprattutto dei grandi obiettivi da perseguire, peraltro in termini piuttosto generici. Solo negli ultimi giorni l’attenzione si è più spostata verso il nodo cruciale che chi ha un po’ di dimestichezza con l’uso dei fondi europei in Italia conosce: quello della governance di queste risorse. Tuttavia, non è stato finora presentato un quadro organico dell’allocazione dei fondi e soprattutto del disegno organizzativo che si intende seguire per il loro utilizzo (il governo dovrebbe discuterlo e approvarlo nelle prossime ore). Si è così determinata una limitazione del dibattito pubblico su un tema di grandissima rilevanza, finora affidato a parziali e incomplete anticipazioni giornalistiche. E non sappiamo quanto spazio resti per una discussione argomentata e pacata sulla proposta del governo. Data l’importanza del tema, vale comunque la pena di parlarne e di mettere in luce nel dettaglio alcuni nodi critici.
Diciamo subito che in questa prospettiva l’aspra polemica politica delle ultime ore sollevata da alcuni settori della maggioranza (in particolare Italia Viva) non aiuta, ma rischia invece di confondere ulteriormente le acque. Ha infatti fondamento la critica al presidente del Consiglio di non avere dato indicazioni più precise nei mesi scorsi sulla governance del piano in modo da permettere una discussione più chiara e informata anche in parlamento. Tuttavia, la polemica nei riguardi del rafforzamento di una struttura tecnica a sostegno di un efficace coordinamento nazionale nell’uso dei fondi europei – che è finora mancato – appare largamente strumentale. Dietro le accuse “che ci saranno i tecnici a gestire tutto” e che ci si prepara a creare “sovrastrutture di centinaia di consulenti” si cela la preoccupazione di non poter controllare politicamente l’uso delle ingenti risorse europee.
È evidente che con il RP dovremmo cercare di evitare i problemi del passato: dispersione, frammentazione, bassa integrazione verticale, difficoltà di spesa, e in definitiva scarsa efficacia dei fondi europei degli ultimi decenni (a differenza di altri paesi). Per affrontare seriamente questa questione non basta però dividersi su chi debba controllare politicamente il processo (il presidente del Consiglio, il ministro dell’Economia, tutti gli altri ministri) e sulla composizione e il ruolo di una “cabina di regia politica”. Il vero nodo, come mostra la precedente esperienza di gestione dei fondi europei, riguarda invece le effettive caratteristiche e i poteri della struttura tecnica che dovrebbe recepire gli indirizzi definiti dall’organo politico, realizzarli efficacemente e renderne via via conto a governo e parlamento. Su questo si sono sentite poche voci, e le proposte del presidente Conte, filtrate in alcune interviste, non sono ancora chiare e lasciano in ombra interrogativi cruciali sui meccanismi di selezione e realizzazione dei progetti. Chi seleziona gli interventi? Chi li progetta? Chi ne segue e ne assicura la realizzazione?
Con questi limiti evidenti, provo comunque a segnalare i nodi critici e a tracciare, brevemente e schematicamente, alcuni requisiti essenziali di un disegno organizzativo per un utilizzo efficace dei fondi nell’interesse collettivo. In sostanza si tratta di affrontare le seguenti questioni:
a) come impostare una valutazione seria e competente dei progetti, che li sottragga a una discrezionalità politica non appropriata, da un lato, e a una frammentazione che li indebolisce e va incontro a obiezioni da parte della Commissione Europea, dall’altro. Allo stesso tempo, come rafforzare le capacità di progettazione autonoma dell’amministrazione pubblica per grandi infrastrutture materiali e immateriali. Mi sembra, infatti, che entrambi i canali – valutazione e progettazione – vadano avviati e debba stabilirsi una divisione dei compiti affidati a ciascuno di essi;
b) come attrezzare un processo di rapida realizzazione dei progetti (il tempo di durata del RP è fissato in sei anni, salvo eventuali proroghe, ma da noi attualmente per le grandi opere si superano in media i dieci anni). Per rispondere a questa domanda occorrerebbe misurarsi i ben noti problemi dovuti alla lunghezza e agli intoppi nelle procedure amministrative (in particolare quelle relative agli appalti) e alla complessità e frequenza del contenzioso (qui bisognerebbe per esempio valutare l’esperienza positiva del ponte di Genova).
Dunque: valutazione, selezione, progettazione esecutiva e realizzazione degli interventi. Per affrontare questi nodi sarebbe opportuno mettere a punto una struttura tecnica di livello nazionale (una “struttura di missione”?), che potrebbe essere meglio collocata a livello di presidenza del Consiglio, perché occorre coordinare, con poteri adeguati, anche i diversi ministeri e le regioni. Come mostra l’esperienza pregressa dei fondi europei, queste strutture tendono a massimizzare le risorse da gestire e a evitare vincoli e controlli nel loro uso, indipendentemente dall’appartenenza politica del singolo ministro o presidente di regione. Sarebbe inoltre auspicabile che la struttura di missione (alla quale pensa forse anche il governo) prendesse in carico anche la gestione dei prossimi fondi strutturali (ciclo 2021- 2027) per gli evidenti problemi di coordinamento con il RP, e per l’assoluta necessità di innovare profondamente nella gestione dei fondi strutturali, a fronte dei problemi di efficacia che la governance finora seguita ha ampiamente mostrato.
In questo quadro, cruciali però diventano l’articolazione interna, le funzioni e i poteri assegnati alla struttura di missione. Sulla base delle considerazioni precedenti, dovrebbe trattarsi di un organismo tecnico organizzato su tre componenti:
a) quella di valutazione, selezione e proposta dei progetti provenienti dalle amministrazioni centrali, regionali e locali, e dal mondo delle imprese private e pubbliche o dal Terzo Settore, da sottoporre alla cabina di regia (l’organo di indirizzo politico). Si consideri che finora la richiesta o l’invio di progetti è avvenuto in modo non trasparente e non adeguatamente regolato. Questo nucleo di selezione e redazione del piano dovrebbe essere costituito da un ridotto numero di tecnici di elevata qualificazione provenienti dalla pubblica amministrazione, dalle imprese pubbliche o anche dal settore privato, assistiti da un’agile e altamente qualificata struttura di servizio. Tale staff dovrebbe essere anch’esso selezionato ricercando le migliori competenze specifiche nella pubblica amministrazione centrale e locale, nelle imprese pubbliche e - quando necessario per integrare le competenze di cui c’è bisogno – anche nel settore privato, nelle professioni e nell’università. Non si tratta dunque di ironizzare su 300 tecnici da assumere, ma di stabilire dei numeri fondati in rapporto alle funzioni da svolgere, senza sacrificare le competenze esistenti ma valorizzandole con un buon disegno organizzativo, che non è garantito, allo stato, dall’assetto ordinario. Nella prima fase - quella immediata - a questa componente dovrebbe essere attribuito anche il compito cruciale di selezionare e integrare effettivamente (e non in modo fittizio, come mera sommatoria) le proposte pervenute intorno ai grandi assi di intervento previsti dalla Commissione europea, e - ove lo si ritenga necessario - di proporre a tal fine anche modifiche e integrazioni. Insomma, questo dovrebbe essere anche lo strumento per concentrare e rendere più efficaci gli interventi (“fare poche cose ma buone”) su cui saremo anche valutati più nel merito, a differenza dal passato, dalla Commissione;
b) una componente di progettazione che dovrebbe raccogliere le migliori competenze esistenti nelle amministrazioni pubbliche, nelle imprese a partecipazione pubblica e nel settore privato. Si consideri, in proposito, che competenze cruciali di questo tipo, specie per problemi nuovi di infrastrutturazione, sono diventate sempre più carenti nell’amministrazione pubblica, al centro e a livello regionale e locale. Per la progettazione, specie per quella esecutiva, bisognerà decidere se affidarla completamente alla struttura di missione centrale, con le opportune interlocuzioni con le strutture dei ministeri, delle regioni e dei territori, o prevedere che questo avvenga in alcuni casi di maggiore rilievo e complessità, mentre in altri la struttura centrale potrebbe anche offrire consulenza e assistenza alle amministrazioni che lo richiedano, per la progettazione esecutiva di interventi che intendono proporre (si tenga però presente che funzioni di questo tipo affidate con molte speranze, già da qualche anno, all’Agenzia per la Coesione Territoriale non hanno dato i risultati sperati). Queste scelte vanno comunque fatte anche in relazione al punto successivo;
c) una terza componente, non meno importante, è quella amministrativa che dovrebbe presiedere alla realizzazione dei progetti, raccogliendo anche in questo caso le migliori competenze e esperienze esistenti nelle amministrazioni pubbliche centrali e locali. Questa componente dovrebbe essere dotata anche di poteri speciali per accelerare e controllare il processo di realizzazione dei progetti (con particolare riferimento a procedure di appalto e contenzioso). Come per la progettazione, la domanda cruciale è qui: chi assume il ruolo di autorità di gestione? La struttura di missione centrale, i ministeri, le regioni, le città metropolitane, i comuni? E quali devono essere i rapporti tra struttura di missione e eventuali autorità di gestione diverse? Ancora: quali i rapporti con la struttura di missione appena creata per gli aspetti finanziari presso il ministero dell’Economia (collocata nella Ragioneria generale)?
Naturalmente, una delle obiezioni che si possono fare a questi requisiti organizzativi è che la messa in opera di un assetto di questo tipo richiede tempo, soprattutto per rendere operative le componenti di progettazione e di gestione amministrativa. Ma questo problema potrebbe essere affrontato con un processo a due stadi. Nel primo, occorrerebbe soprattutto puntare sulla componente di valutazione e selezione dei progetti di massima con la relativa allocazione finanziaria, che è decisiva per la qualità complessiva del piano e che entrerebbe in funzione rapidamente (la bozza di piano va presentata a gennaio, ma ora si parla di febbraio). Nel frattempo, nella fase successiva fino alla approvazione del RP da parte della Commissione probabilmente in primavera, si potrebbe lavorare a rafforzare e rendere pienamente operative le altre due componenti (progettazione esecutiva e procedure amministrative), che riguardano più la fase di realizzazione.
Si noti che questa impostazione esce da una contrapposizione, a mio avviso non appropriata rispetto al problema straordinario che abbiamo davanti, tra difesa dell’amministrazione ordinaria e costituzione di una spesso temuta struttura parallela. Come ho già detto, dietro la proclamata difesa dell’assetto ordinario, e in particolare del ruolo dei ministri, si intravedono a volte chiaramente esigenze di controllo politico delle risorse più che vere preoccupazioni per l’efficacia del piano. D’altra parte, è comunque vero che non si può prescindere radicalmente dalle strutture ordinarie, che hanno un ruolo cruciale di gate-keeping, e non ci si dovrebbe comunque privare delle competenze, delle esperienze e delle qualità che in esse certo vi sono.
Tuttavia, bisogna riconoscere che se i progetti sono stati già sostanzialmente prescelti - come ha dichiarato qualche giorno fa il presidente del consiglio – e l‘assetto organizzativo praticamente definito, resta ben poco spazio per una discussione pubblica e per una deliberazione adeguata rispetto a un passaggio cruciale decisivo per la ripresa e lo sviluppo del Paese.
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