È una mezza mela il logo scelto per la lettera aperta che una rappresentanza di associazioni e alcune donne della società civile hanno indirizzato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al suo governo il 2 ottobre scorso. L'iniziativa, lanciata sul sito ilgiustomezzo.it, ha raccolto nel giro di pochi giorni più di 27 mila sottoscrizioni. La gustosa mela in questione sono i 209 miliardi di euro riservati all'Italia del piano per la ripresa Next Generation EU – in altre parole, il Recovery Fund: la richiesta delle firmatarie è di destinarne la metà a politiche integrate di genere e a interventi strutturali per combattere l’inattività e il basso tasso di occupazione femminile.
L'idea trae ispirazione da #HalfofIt, campagna promossa dalla europarlamentare tedesca Alexandra Geese affinché almeno la metà del fondo per la ripresa e la ricostruzione dopo l'emergenza Covid-19 sia dedicata all’occupazione, alla promozione dei diritti delle donne e alla parità di genere. Motivazione e obiettivi dell'appello italiano sono etici, politici ma soprattutto economici. Il dato di partenza è che "i problemi delle donne sono tanti e non riguardano solo loro, ma lo sviluppo sano ed equo di tutti" e che "investire per combattere l’inattività e il basso tasso di occupazione femminile è il più grande moltiplicatore di Pil possibile", recita la lettera. Forte dello studio delle economiste Klatzer e Rinaldi, che ha mostrato come le proposte per l'uso dei fondi per la ripresa possano altrimenti penalizzare le donne, l'appello vede nel momento attuale l'occasione per affrontare le piaghe strutturali del nostro Paese, come "la denatalità, la disoccupazione femminile, la povertà educativa, il disinteresse per l’infanzia, la mancata conciliazione famiglia lavoro, l’insufficienza del welfare sociale sui servizi alla persona da zero anni alla terza età".
Tre sono, in particolare, le richieste della lettera: 1. allargare l’offerta sulla cura della prima infanzia e degli anziani e non autosufficienti con un investimento su servizi come i nidi e tempo pieno, anche con una spinta alla condivisione e un vincolo di spesa percentuale (sia sulla spesa ordinaria che su fondi Ue o sul Recovery Fund) per le Regioni e i Comuni che ne hanno una scarsa offerta; 2. promuovere l'ingresso e la presenza delle donne nel mercato del lavoro, anche attraverso sostegni fiscali, supporto alle imprese e al lavoro femminile; 3. intervenire sulla disparità salariale tra uomini e donne (o gender pay gap). Questi tre ambiti vanno trattati congiuntamente, come tre gambe dello stesso tavolo, e devono realizzarsi in una offerta su tutto il territorio nazionale che prescinda dalla domanda: perché sarà l'offerta stessa a crearla. Il cambiamento indicato va integrato con quello da realizzare in altri settori, ad esempio nella scuola (a cominciare dalla formazione di chi vi lavora) o negli organismi pubblici decisionali (in cui deve essere garantita una parità qualificata di genere). Il punto principale su cui insiste la lettera, che è anche il suo maggior pregio, è che tutto debba avvenire non attraverso interventi una tantum e sconnessi gli uni dagli altri, tipo bonus, bensì con un cambio di paradigma che promuova politiche strutturali e integrate di lungo periodo. Un simile cambiamento, assicurano le firmatarie, verrà ricompensato in termini di guadagno sociale, economico, culturale e demografico.
Si tratta di richieste condivisibili e documentate. L'investimento nella care economy è ben ripagato in termini di crescita del Pil e molti studi hanno mostrato che solo interventi strutturali e integrati, più che meri aiuti finanziari o tagli fiscali, possono rilanciare l'occupazione femminile nel nostro paese. D'altra parte, dal punto di vista dell'uguaglianza di genere la situazione italiana prima del Covid-19 era già critica, come i dati Istat da tempo ci dicono: nonostante negli ultimi quarant'anni sia diminuito, il divario tra uomini e donne nei tassi di occupazione è ancora di circa 18 punti percentuali (su una media europea di 10); inoltre, l'occupazione femminile presenta ancora forti disparità territoriali (nel 2018 nel Mezzogiorno tra le donne tra i 15 e i 64 anni ne lavorava una su tre, un valore che non solo era poco più della metà del Nord, ma era inferiore alla media nazionale delle donne nel 1977). I dati sulla transizione scuola-lavoro mostrano che le competenze delle donne sono ancora scarsamente valorizzate, con un'ampia quota di donne precarie o fuori dal mercato del lavoro pur in presenza di un alto titolo di studio, o di sovraistruite rispetto alle mansioni svolte; permane anche un divario di genere nel reddito netto mensile a parità di titolo di studio e nella rappresentanza nelle posizioni apicali. Avere responsabilità di cura significa per le donne spesso uscire (o non poter entrare) nel mercato del lavoro: il tasso di occupazione delle madri di figli piccoli o con parenti non autosufficienti è del 57% (a fronte dell’89,3% dei padri). Per non dire del lavoro non retribuito (in primis, domestico e di cura): le donne italiane vi dedicano in un giorno medio più di cinque ore, laddove gli uomini circa due, segnando il maggiore divario di genere tra i paesi europei. Non è un caso se alla soglia dell'emergenza Covid-19 il rapporto sul Global Gender Gap del World Economic Forum ci poneva al 76o posto sul 153 Paesi sulla base degli indicatori di uguaglianza di genere.
A una situazione di questo tipo si è aggiunta la pandemia, che ha ulteriormente acuito il divario su molti aspetti, come diversi studi hanno documentato (si veda, ad esempio, l'accurato dossier di Ingenere.it). I settori più colpiti dalle restrizioni sono stati quelli dove le donne erano più presenti (istruzione, assistenza alla persona, turismo). E sono più le donne a operare in settori a rischio alto o medio-alto di esposizione al virus, ci dicono Istat e Inail (28% contro il 12% degli uomini). Durante il lockdown l'asimmetria nel lavoro di cura in famiglia è rimasta inalterata o è addirittura aumentata. Sono aumentate le richieste di aiuto per violenza domestica e l'accesso alla salute e ai diritti riproduttivi è stato reso più difficile dalle restrizioni agli spostamenti.
Non si possono dunque che condividere le richieste avanzate nel testo dell'appello. Il quale, però, colpisce anche per l'assenza di un termine chiave: "disuguaglianza". Certo, si tratta del filo conduttore implicito di tutto il discorso (non ci sarebbe bisogno di fare simili richieste se non ci fosse la disuguaglianza tra uomini e donne). Tuttavia, non va scordato che questa esiste anche tra donne. Le protagoniste dello "sguardo divergente" invocato nel testo e prime beneficiarie delle proposte paiono tacitamente essere donne di classe medio-alta, preparate, con competenze inespresse o non riconosciute nel mercato del lavoro, eterosessuali, con cittadinanza italiana, probabilmente strette nella morsa della doppia presenza. Ma non dimentichiamoci che il sistema economico su cui si applicano gli interventi proposti poggia sul lavoro invisibile e sommerso di donne che queste caratteristiche spesso non le hanno, e che sono le più duramente colpite dalla crisi. Poco beneficerebbe di una politica di quote nei luoghi decisionali o di sgravi fiscali la migrante che ha perso il lavoro in nero come collaboratrice domestica con la pandemia e che ha il permesso di soggiorno in scadenza.
È questo un buon motivo per mettere in discussione le proposte fatte? Certamente no: esse rappresentano le basi per un cambiamento profondo, come recita la lettera stessa, e sono convincenti nel sostenere la necessità di un cambio di paradigma. Si tratta di partire da qui e adottare una visione intersezionale del problema, ricordando che uguaglianza richiede "redistribuzione" (altra parola assente nella lettera) perché la struttura profonda dei divari non rimanga inalterata. Se è vero che il lavoro retribuito degli uomini (italiani, eterosessuali) beneficia nella maggioranza dei casi di quello non retribuito delle compagne o delle madri, è anche vero che spesso quest'ultimo poggia a sua volta su quello invisibile delle migranti, che magari hanno lasciato figli e mariti al Paese di origine in una lunga catena della cura. È allora fondamentale integrare gli interventi detti con una visione che allarghi le maglie della cittadinanza, garantisca un accesso universale alle cure sanitarie e alla protezione sociale, contrasti il lavoro sommerso e lo sfruttamento, ma anche redistribuisca la ricchezza e contrasti l'evasione – ad esempio, con una tassazione più giusta per quei giganti digitali che più hanno beneficiato dalla pandemia, come propone uno studio sulla ripresa sostenibile e la tassazione internazionale della commissione Icrict, che comprende, tra gli altri, nomi come Stigliz e Piketty. La pandemia può essere allora l'occasione di un cambio di paradigma ancora più profondo, improntato a una logica redistributiva e solidaristica, alla tutela della cosa pubblica, alla responsabilità energetica e climatica, ma anche a una ridefinizione della cura, del lavoro e del benessere che superi la miopia neoliberista. Perché la mela va divisa con equità, ma non si può lasciare a chi l'ha raccolta solo il torsolo.
Riproduzione riservata