Non c’è niente di più mesto dello slogan che ci sta accompagnando in questi giorni: “Andrà tutto bene”. Come sappiamo, è un'espressione che di solito adoperiamo per far coraggio o per farci coraggio, proprio quando temiamo che le cose possano precipitare. Eppure ci siamo aggrappati a questa consolazione con tutte le nostre forze; così come ai balconi, che abbiamo ripreso a frequentare per comunicare, come facevano le nostre nonne. E a farlo in uno dei modi con cui nel mondo siamo famosi: cantare! Non è un caso, allora, se questi canti di speranza e incoraggiamento abbiano fatto il giro del mondo, confermando come gli stereotipi siano duri da sovvertire. E talvolta può anche far piacere.

Un’altra considerazione che usiamo per farci forza è che fermarsi a riflettere – costretti come siamo a questi “domiciliari” obbligatori – può non essere del tutto negativo. Casomai per ragionare e – perché no – ribaltare alcuni luoghi comuni che tutti – chi più chi meno – frequentiamo. Vediamone due.

In queste ore abbiamo spesso sentito ripetere che la gravità della situazione ha restituito la parola ai competenti. Così, da oltre un mese, come è giusto che sia, giornali e tv ci stanno facendo conoscere virologi, infettivologi, immunologi e così via. In realtà, quanto successo fino a ieri solo a prima vista può essere scambiato per una ribellione verso la competenza. Ciò che cittadini sempre più esigenti chiedono ai competenti è di non limitarsi esclusivamente a operare, dicendoci di aver fede; quanto, piuttosto, di render conto, spiegare, fare comprendere perché procedere in un modo invece che in un altro. Il paziente non “pretende di saperne di più”, ma “pretende” di capire per poter riporre la giusta fiducia. Il vero vulnus nel riconoscimento della competenza è di un discorso pubblico costruito sull’eccezione piuttosto che sulla regola. Perché è l’eccezione a far più rumore e, soprattutto, a essere ripresa dai media. Ed è sempre ad essa che si riferiscono i politici che ormai rincorrono l’opinione pubblica, con ancora più affanno rispetto al modo in cui nell’economia finanziarizzata si segue minuto per minuto l’andamento della Borsa.

Ciò che maggiormente colpisce in questi giorni è non tanto il parziale disaccordo fra maggioranza e opposizione sulle politiche da intraprendere per contrastare la pandemia oppure sulle misure necessarie ad arginare la crisi economica, quanto piuttosto che le differenze di vedute non sono mai articolate in ragionamenti – condivisibili o meno – ben argomentati, ma si limitano a slogan, a battute efficaci per essere ripresi nei titoli dei giornali o nelle stucchevoli dichiarazioni che i Tg - soprattutto quelli della Rai - continuano a mandare in onda, senza capire che così delegittimano ogni giorno di più la politica e i suoi esponenti. Insomma, un comportamento che appare particolarmente stonato in un momento così tragico.

È la sindrome di scambiare la parte per il tutto, che – se si riflette bene – è sempre stato uno dei criteri attraverso cui il giornalismo ha definito i fatti di cui parlare. È notizia l’eccezione e non la regola. Il classico uomo che morde il cane e non viceversa. Ma è arrivato il tempo per comprendere come ormai viviamo immersi in un ecosistema denso d’informazioni – il surplus informativo, l’overload di cui spesso sentiamo parlare – che richiede a tutti e soprattutto ai professionisti della comunicazione – non soltanto ai giornalisti ma anche agli innumerevoli consulenti che consigliano coloro che ricoprono i più importanti ruoli pubblici – contestualizzazioni sempre più puntuali, che permettano di dare il giusto peso a ogni singola notizia e forniscano prospettive e cornici interpretative. Ormai è questa la competenza comunicativa richiesta, piuttosto che limitarsi a dare la notizia e arrivare per primi per non prendere buchi.

Altro diffuso luogo comune è che la Rete e, ancor di più, i social rappresentino la sublimazione dell’incompetenza. Sia ben chiaro, non si vuol negare l’uso distorto della Rete, anche da parte di persone esperte e qualificate. Non si smetterà mai di ripetere, ma stupisce doverlo fare anche con personaggi abituati all’esposizione mediatica, che i social sono un luogo pubblico, in cui non poter ripetere affermazioni che dette di persona, aiutandosi con il registro linguistico e con la mimica, verrebbero facilmente comprese per il loro carattere paradossale. Ma ancora una volta non bisogna confondere la parte con il tutto. Poche migliaia di odiatori, così come altrettanti professionisti interessati a far circolare notizie fasulle per motivi ideologici o per fini commerciali, sono sicuramente un fenomeno grave e da biasimare. Ma non vanno confusi con la Rete, con i social. Infatti, mai come in queste ore stiamo apprezzando le loro enormi potenzialità, tanto per fini produttivi e lavorativi quanto solidaristici, o anche semplicemente di svago e intrattenimento.

Bisogna sperare che questa resipiscenza eviti nei confronti del mondo digitale le stesse stucchevoli polarizzazioni fra apocalittici e integrati che poco più di mezzo secolo fa hanno caratterizzato i giudizi sulla funzione educativa o diseducativa della televisione. Nei confronti del consumo digitale dovremmo muoverci con saggezza; apprezzare la possibilità di farsi delle grande abbuffate, ma limitarle a momenti davvero particolari e residuali della nostra vita, per acquisire, piuttosto, un’educazione – che preferisco definire alfabetizzazione digitale – in grado di approfittare delle grandi risorse che dalla Rete e dai social possiamo prendere, scongiurando gli altrettanto frequenti pericoli che un loro uso distorto produce.