Il 5 febbraio scorso il Parlamento della Turingia si è riunito per eleggere il nuovo Ministerpräsident, il presidente del Governo del Land. Dalle elezioni dello scorso autunno non è emersa una maggioranza chiara: il presidente uscente Bodo Ramelow (Linke) ha ben governato con una coalizione rosso-rosso-verde, che, tuttavia, non ha ottenuto per un soffio i seggi necessari per essere riconfermata.
E la ragione è indubbiamente legata al successo di Alternativ für Deutschland (Afd) che ha ottenuto 22 parlamentari e quasi un quarto dei seggi (sebbene primo partito resti la Linke con 29 parlamentari).
Ramelow ha proposto un governo di minoranza; negli ultimi mesi, tuttavia, qualcosa si è mosso per rompere quel tabù sino a oggi condiviso a livello federale: non accettare i voti di Afd per governare. Che nella Cdu, divisa su un possibile accordo con Ramelow o anche solo su un’astensione che facesse avviare la legislatura, le acque fossero particolarmente turbolente era apparso chiaro quando pochi giorni fa il Ministerpräsident dello Schleswig-Holstein, Daniel Günther, vicinissimo ad Angela Merkel ed evidentemente preoccupato di uno spostamento a destra del partito, raccomandava di dare via libera al governo Ramelow. E, cioè, garantire responsabilmente il funzionamento delle istituzioni, restando all’opposizione ma sfruttando i meccanismi della democrazia parlamentare per evitare un inutile ostruzionismo e assicurare alla Turingia un governo. Le reazioni della destra del partito, in particolare della Werteunion, furono immediate e sostanzialmente accusavano Günther di «collaborazionismo» con i «veri» estremisti, quelli della Linke.
Ieri il colpo di scena: dopo le prime due elezioni, nelle quali è necessario raggiungere la maggioranza qualificata, alla terza Afd non vota il suo candidato ma dirotta i suoi voti su quello dei liberali della Fdp Thomas Kemmerich (che al Landtag hanno superato per un pelo la soglia del cinque percento). La Cdu si spacca: in due votano per Ramelow, uno si astiene, gli altri per Kemmerich, che raggiunge la questa volta necessaria maggioranza semplice e viene eletto.
La polemica s’infiamma immediatamente: per la prima volta i partiti storici accettano i voti di Afd. Ma il punto non è (solo) questo. Il problema non è che Afd possa dare la fiducia a un candidato presidente, a colpire sono le modalità: un accordo «privato», una trattativa segreta, senza nessuna trasparenza. Il Parlamento di un Landtag ridotto ad un’assemblea di quart’ordine, in cui i protagonisti sono pronti a tutto per un tornaconto personale. E così avviene che un «liberale» (sic!) venga eletto anche se di fatto ha perso le elezioni e contando su un gruppo di appena cinque (lui compreso) parlamentari. Afd ha presentato il proprio candidato, Christoph Kindervater (un indipendente che non è riuscito a essere eletto al Landtag nelle ultime elezioni), e poi ha deciso di dirottare i propri voti su Kemmerich. Tant’è che alla terza elezione Kindervater non ha ottenuto nemmeno un voto. Come se non bastasse, arrivano le stupefacenti parole di Kemmerich che dichiara di non voler governare con gli estremisti, senza i quali però non sarebbe mai stato eletto, quando appena poche ore dopo emergono le prove di una lunga discussione, in gran parte tenuta nascosta, tra i due partiti. Proprio questo fa indignare pressoché tutti: la distanza tra parole e comportamenti, tra quello che si dichiara in pubblico e quello che si fa poi in concreto.
Artefici di questa operazione teatrale sono i liberali, che infangano la tradizione di un partito da sempre al governo nella Repubblica di Bonn dal 1949 al 1990
Artefici di questa operazione teatrale sono i liberali, che infangano la tradizione di un partito da sempre al governo nella Repubblica di Bonn dal 1949 al 1990 (con una breve eccezione nella Grande coalizione del 1966-69) e che ha indubbiamente segnato la storia della Germania: nel 1969 dando vita al governo Brandt che realizzerà l’Ostpolitik e nel 1982 spostando a destra il baricentro politico scegliendo come nuovo cancelliere Kohl. Di quel partito non resta più niente, solo macerie e l’abbigliamento casual del giovane leader Christian Lindner, un capetto arrogante e spregiudicato che nel 2017 dopo due mesi di trattative mandò a monte un governo con Cdu e Verdi, che corrispondeva di più all’esito delle elezioni federali, obbligando così Merkel a cercare nuovamente l’accordo della Spd. «Meglio non governare affatto che governare male», così Lindner giustificò la sua scelta, che puntava ai delusi della Cdu e della Spd e a correre alle elezioni successive come ago della bilancia e possibile Cancelliere. Gli è andata male: la Fdp non cresce nei sondaggi e stenta a livello regionale.
Ma l’arroganza resta e ieri il suo alter ego della Turingia ne ha dato prova: con un gruppo di appena cinque parlamentari tratta sottobanco con Afd e alla terza votazione convince anche la maggioranza dei conservatori. Viene eletto. Senza un programma, senza un’idea, senza un progetto presentato al Landtag e ai cittadini. Ma accettando di buon grado i voti degli estremisti: si vede che per posti e poltrone, i liberali sono disposti anche a governare male e con gente di estrema destra, che Afd ha accolto con soddisfazione (tra cui, proprio in Turingia, il discusso Björn Höcke). Dopo la sua elezione, la capogruppo della Linke gli si avvicina con il mazzo di fiori usato di solito per congratularsi, preparati per Ramelow. Glielo butta davanti ai piedi, accenna a un inchino e se ne va. Nulla descrive meglio l’indignazione trasversale nel Paese.
A Berlino intanto si riuniscono i partiti. La reazione delle sinistre è prevedibile. La Spd convoca addirittura i suoi militanti dinanzi alla sede dei liberali per contestarli. Nella Cdu la Vorsitzende Kramp-Karrenbauer detta la linea: quell’accordo è inaccettabile, non rappresenta la linea del partito e in Turingia bisogna andare al più presto al voto. Linea poi confermata dalla stessa Cancelliera, che teme anche ricadute sulla stabilità del Governo federale. L’indignazione aumenta nelle ore successive, in poche ore la pressione degli iscritti preoccupati da una possibile collaborazione con un personaggio discusso come Höcke si fa insostenibile: Kemmerich annuncia le dimissioni giovedì 6. Il caso apparentemente sembra chiudersi così ma lascia aperti strascichi.
Kramp-Karrenbauer e Merkel hanno capito che il sistema è ormai irrimediabilmente non più bipolare ma pluripartitico
Innanzitutto va segnalata la diversità del partito di Angela Merkel dagli altri partiti conservatori e la definitiva incompatibilità con l’ala destra della Cdu, quella Wertunion, che da anni è la vera opposizione al governo della Cancelliera e che inorridisce all’idea di un possibile governo nel 2021 con i Verdi, sul modello austriaco. Kramp-Karrenbauer e Merkel hanno capito che il sistema è ormai irrimediabilmente non più bipolare ma pluripartitico (nel 1969 quando fu eletto Willy Brandt al Bundestag c’erano tre partiti, oggi sono sei). Le coalizioni vanno costruite in modo trasparente per definire governi stabili che siano in grado di lavorare e di dare risposte ai cittadini. Ramelow in Turingia aveva governato bene dimostrando la Regierungsfähigkeit della Linke, almeno a livello di Land: paragonare quella forza politica ai populisti di Afd semplicemente non ha più senso. Ai populisti di destra non occorre dare spazio: hanno le rappresentanze nei Parlamenti, ma al governo non è ipotizzabile nessun accordo. Su questo la Werteunion annuncia battaglia, anche se fino ad oggi è sempre uscita sconfitta nei congressi del partito.
In Turingia ieri si è consumato uno strappo grave, stigmatizzato da tutti i partiti e anche da gran parte del mondo dell’informazione, cosa che dimostra come la Germania abbia ancora anticorpi efficaci. Ma anche che, nonostante la vulgata di questi anni, il vero problema della democrazia non sono solo gli estremisti. Ma anche quelle formazioni centriste, autodefinitesi liberali che, piccoli Trump in piccolo, cercano altre strade per arrivare a qualche posto in più. Sono quelle formazioni, anche dentro la Cdu, che continuano a parlare, contro ogni principio di realtà, del «pericolo rosso» e dell’estremismo di sinistra. Insistono a prendersela con il «regime» di Angela Merkel e con la necessità di difendere con maggiore vigore gli interessi tedeschi. Alle porte non c’è il fascismo, ma sicuramente la fine di un’idea progressiva, trasparente, pubblica e sostanziale della democrazia. Indigna che a testimoniarlo sia un partito che si definisce «liberale».
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