Quando politici e osservatori pensano alla sinistra, alla sua crisi e ai modi per uscirne, ricorrono perlomeno a due strategie. La prima si propone di elaborare una prospettiva post-ideologica e al passo coi tempi, facendo spesso ricorso a concetti e parole d’ordine che un tempo erano utilizzate nel campo avversario.A questa strategia di solito si accompagna il tentativo di far fare alla sinistra le stesse cose che prima faceva la destra, ma in modo più decente e accettabile per i ceti sociali più deboli.La seconda strategia, invece, ritiene opportuno partire dai valori e dai principi tradizionali della sinistra per costruire una visione di ampio respiro che sia capace di dare risposte alle questioni contemporanee.
La prima strategia, molto diffusa anche nel nostro Paese, nel tempo si è rivelata fallimentare sia dal punto di vista politico-culturale sia in termini elettorali. La seconda, anche se potenzialmente più fertile e ricca di sviluppi futuri, è stata finora minoritaria e sovente si è auto-condannata alla marginalità per mancanza di realismo.
Emanuele Felice e Giuseppe Provenzano, con il saggio pubblicato sull’ultimo numero de «il Mulino», si collocano tra i fautori della seconda strategia in modo originale e soprattutto senza correre il rischio di confinare la propria proposta nell’angolo dei buoni propositi privi della possibilità di incidere sulla realtà. In estrema sintesi, Felice e Provenzano auspicano un rinnovato «incontro tra il pensiero liberale e quello socialista», incontro che sarebbe giunto a compimento già tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e avrebbe reso possibile alle società occidentali traguardi mai raggiunti in termini di libertà, prosperità e democrazia.
All’interno della prospettiva neosocialista delineata da Felice e Provenzano trovano spazio tre punti particolarmente interessanti e condivisibili: il rifiuto del neo-liberalismo che, rendendo prioritaria la libertà economica a discapito di tutte le altre, mette in pericolo i diritti umani e – contrariamente a quanto si crede ‒ perfino la crescita economica; il ruolo rinnovato dello Stato nazione nella promozione di politiche egualitarie in un contesto di globalizzazione; il legame inscindibile tra diritti sociali, civili e ambientali come premessa dell’emancipazione umana.
Il saggio di Felice e Provenzano mi pare un contributo particolarmente efficace per porre le basi di un’ approfondita discussione su una sinistra moderna in cui la lotta alle disuguaglianze sociali si concilia con i vincoli imposti dal rispetto dei diritti umani e dallo sviluppo sostenibile. Eppure, rispetto ad alcune questioni fondamentali il saggio qui discusso dice poco o nulla. Mi riferisco al populismo e al pluralismo sociale e culturale che caratterizza il mondo contemporaneo. Si tratta di fenomeni importanti, e una sinistra che si ponga l’obiettivo di governare le società odierne deve affrontarle con la stessa attenzione con cui considera la disuguaglianza socioeconomica.
I limiti della proposta che ho appena sintetizzato derivano, a mio avviso, da un’interpretazione troppo ristretta e unilaterale di quel liberalismo che, nelle intenzioni degli autori, dovrebbe incontrarsi con il socialismo. Infatti, nella ricostruzione storica di Felice e Provenzano, il liberalismo appare fin dalle origini «fondato sulla centralità del lavoro» e prevalentemente incentrato sulle questioni economiche e sociali. Esiste invece un’interpretazione del liberalismo più fertile e capace di affrontare, o quantomeno mettere sul tappeto in modo esplicito, alcuni problemi che finiscono per essere sottovalutati nell’analisi di Felice e Provenzano. Mi riferisco a quella interpretazione per cui il liberalismo è una teoria sui limiti del potere che le istituzioni esercitano su individui liberi, eguali e diversi.
Da questo punto di vista, anziché essere una teoria che impone agli individui uno specifico stile di vita, il liberalismo si preoccupa di realizzare le condizioni all’interno delle quali ciascuno, ovviamente in rapporto agli altri, definisce il proprio piano di vita. Lo scopo principale di un liberalismo così inteso è quello di formulare una risposta alla domanda su come assicurare che persone e gruppi che hanno valori, fedi e credenze diverse possano coesistere pacificamente all’interno della medesima società (per una trattazione più ampia mi sia consentito rimandare al mio Dealing with Diversity. A Study in Contemporary Liberalism, Oxford University Press, 2020).
La consapevolezza che la diversità culturale, religiosa e morale rappresenta una condizione ineludibile delle società contemporanee dovrebbe essere un punto fermo per una sinistra che, in un quadro di giustizia sociale e rispetto dei diritti umani, voglia proporre un’idea di società alternativa alle destre più o meno reazionarie che si rafforzano un po’ ovunque negli ultimi anni. In un’era di migrazioni di massa e di multiculturalismo di fatto, la questione di stabilire le condizioni in cui persone e gruppi diversi possano convivere all’interno dello stesso quadro istituzionale e alla luce di norme e valori condivisi dovrebbe essere una priorità per una sinistra capace di incidere sulla realtà. È un problema urgente, soprattutto se pensiamo che la destra ripropone con forza sempre maggiore la propria ricetta fatta da un lato di porti e confini chiusi, e dall’altro di omogeneità culturale con sfumature razziste.
Una interpretazione del liberalismo come quella che ho qui appena abbozzato è utile anche per cercare di formulare una risposta a un’altra questione urgente per le democrazie contemporanee, vale a dire il populismo. Come ha sostenuto William Galston nel recente La minaccia populista alla democrazia liberale (Castelvecchi, 2019), il populismo si contrappone alla democrazia liberale soprattutto per quei meccanismi istituzionali di difesa degli individui e dei gruppi minoritari dalle pretese della maggioranza. I populisti accettano la sovranità popolare e la democrazia, soprattutto se concepite in senso strettamente maggioritario, cioè esclusivamente come esercizio del potere della maggioranza. Sono invece molto critici dell’elemento tipicamente liberale della democrazia liberale, cioè i diritti individuali inalienabili anche se contrari agli interessi della maggioranza.
I populisti abbondano in semplificazioni, e tra queste trova ampio spazio l’immagine di una società omogenea e indifferenziata. Come ha scritto Jan-Werner Müller, i populisti «parlano e agiscono come se il popolo potesse sviluppare un solo giudizio, una sola volontà e dunque un solo, inequivocabile mandato» (Cos’è il populismo?, Università Bocconi Editore, 2017). In questo come in molti altri casi, la semplificazione populista non rende conto della complessità del reale e può mettere in discussione i diritti degli individui al dissenso e alla libera manifestazione della propria identità.
Considerando poi che in materia economica i populisti tendono ad aderire ai principi del neo-liberalismo, si comprende come una concezione liberale che assume fin dal principio che gli individui e i gruppi sono diversi e che questa diversità deve essere affrontata con equità, è uno strumento teorico di cui la sinistra ha bisogno per rispondere in maniera adeguata (e senza tradire i suoi valori fondamentali) all’avanzare delle destre.
In conclusione, credo fermamente che il saggio di Felice e Provenzano vada letto e discusso. C’è da augurarsi che, indipendentemente dalla cronaca politica di queste settimane, il loro lavoro contribuisca ad aprire un dibattito serio e approfondito sulla sinistra dei prossimi decenni. Da parte mia, pur condividendone l’ispirazione egualitaria e la passione per la giustizia sociale, ho cercato di far vedere come un’interpretazione più ampia del liberalismo ‒ cioè un’interpretazione in cui la diversità sia maggiormente considerata ‒ lungi dall’essere puro vezzo accademico, potrebbe aiutare la sinistra ad affrontare alcune sfide ineludibili del tempo presente.
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