Ha suscitato scalpore il caso di Emanuele Castrucci, professore ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Siena che per anni ha sostenuto tramite i suoi profili social posizioni esplicitamente neonaziste, razziste, antisemite e negazioniste della Shoah. Il rettore senese e gli organi rappresentativi dei suoi colleghi, spinti dal montare della polemica mediatica, hanno preso le distanze da lui e stanno promuovendo provvedimenti che possono preludere a un licenziamento, aperti da una denuncia alla Procura. A fronte di questi sviluppi, alcuni studiosi e accademici hanno sollevato dubbi sull’opportunità e sulla legittimità di un atteggiamento repressivo verso il docente da parte dell’ateneo di appartenenza. In particolare Biagio De Giovanni, pur condannando fermamente l’opinione del collega, ha rigettato l’ipotesi di un licenziamento richiamando la qualità della sua attività intellettuale e l’illegittimità di provvedimenti di totale ostracismo in un ambiente, quello della ricerca universitaria, che si fonda sul libero confronto e dibattito e sulla battaglia delle idee, non sulla loro repressione. È stato del resto proprio Castrucci a difendersi facendo rientrare le sue esternazioni nell’ambito della piena libertà di parola e di espressione che caratterizzano il libero confronto.
Il tema è interessante e merita di essere affrontato fino in fondo, anche per trarre da un caso singolo alcune linee di comportamento generali. Iniziamo facendo chiarezza: la libertà di esprimersi accordata a un professore universitario è molto più solida e strutturata della semplice libertà di parola riconosciuta a tutte e a tutti nelle democrazie liberali: si tratta infatti di libertà accademica. Essa consiste, a dirla brutalmente, nella possibilità di essere pagati e accedere alle fondamentali strutture professionali dell’insegnamento e della ricerca anche per sostenere posizioni ritenute sbagliate, pericolose, potenzialmente catastrofiche se diffuse e messe in pratica nella società. Non è un caso se, nel senso comune così come negli aspetti più noti della legislazione in materia, la libertà accademica quasi si identifica col mantenimento della posizione lavorativa e stipendiale dello studioso. È così di fronte alla sostanziale inamovibilità maturata per i docenti nei Paesi in cui la «corporazione» universitaria è stata più largamente inglobata nell’impiego pubblico, e nell’ambito della tenure riconosciuta in sistemi contrattuali come quello statunitense.
La libertà di esprimersi accordata a un professore universitario è molto più solida e strutturata della semplice libertà di parola riconosciuta a tutte e a tutti nelle democrazie liberali: si tratta di libertà accademica
Molto spesso però si dimentica un altro elemento nell’attribuzione di quello che è, a tutti gli effetti, un privilegio professionale strettamente legato alla funzione culturale e sociale di docenti e ricercatori universitari. Ai ruoli a cui viene riconosciuta la libertà accademica si accede dopo che la comunità degli studiosi ha potuto prendere in esame per un congruo periodo di tempo l’attività scientifica dell’aspirante docente, riscontrandovi un adeguato livello di competenza disciplinare e la maturazione di un’adeguata etica professionale. Questo passaggio è esplicito nelle norme che, ad esempio negli Stati Uniti, regolano il tenure track, e in fondo si ritrova alle radici della formazione stessa delle istituzioni universitarie nell’Europa medievale, quando appunto la licentia ubique docendi costituiva un fondamentale accesso alla possibilità di insegnare rilasciata dopo attento esame da parte di alcuni tra i massimi esperti della disciplina.
Una volta chiarito questo quadro generale, quali conclusioni possiamo trarre sul caso Castrucci? In primo luogo, se coi suoi tweet antisemiti e filohitleriani il docente ha esercitato il proprio inalienabile diritto alla libertà di espressione o ne ha abusato violando la legislazione sull’apologia del nazismo e del fascismo e quella (a mio parere, e anche secondo l’opinione della principale associazione culturale italiana di storici contemporaneisti, piuttosto scivolosa e non del tutto condivisibile) sul negazionismo, spetta alla magistratura e non all’università.
Detto questo, occorre chiedersi se le sue prese di posizione sono difese dalla libertà accademica, che quindi lo mette al riparo da provvedimenti sul piano professionale. Ed è questo il punto a mio parere interessante. Se infatti, come abbiamo visto in precedenza, l’attribuzione del privilegio della libertà accademica si regge sulla dimostrazione di aver acquisito e di mantenere competenza disciplinare ed etica professionale, bisogna ammettere che chi esprime pubblicamente le opinioni che ha espresso convintamente Castrucci forse non possiede più, se mai effettivamente è giunto ad averle, né l’una né l’altra.
Da un lato, le idee sul «complotto ebraico», sulla politica monetaria «sovranista» di Hitler e Mussolini e sulla veridicità dei Protocolli dei Savi di Sion, prima di essere aberranti, sono fondate su dati falsi e ampiamente smentiti, e possono essere credute solo da una persona ignorante della storia, sciatta nell’analisi critica delle sue fonti, priva dei filtri culturali alla propaganda più trita che ci si aspetterebbe da un uomo di cultura, per di più specializzato nella storia delle idee e del pensiero. Dall’altro, è doveroso chiedersi se chi esprime così apertamente il disprezzo per interi gruppi umani ha poi dato seguito alle parole con comportamenti più o meno velatamente discriminatori e ostruzionistici nei confronti di studentesse e studenti, colleghe e colleghi, in un mondo universitario in cui tra molte difficoltà si affacciano minoranze di cui andrebbero tutelate le pari opportunità.
Dunque, alla luce di un comportamento così evidentemente lesivo di qualsiasi codice etico di condotta fondato sulla convinzione che un professionista intellettuale non smette le sue funzioni professionali alla fine dell’orario d’ufficio e che la comunicazione pubblica del personale universitario è parte integrante della «terza missione» di divulgazione e public engagement, avrebbe senso se l’ateneo senese indagasse da vicino sui comportamenti tenuti da Castrucci nelle proprie relazioni di lavoro, ponendosi il problema del perché finora non è emerso nulla dai canali di tutela e di valutazione degli studenti o da rimostranze di colleghi, e se ripercorresse con attenzione le tappe di carriera del docente e le sue valutazioni successive per individuare come e perché nella lettura critica della sua produzione da parte di commissari ed esperti valutatori non siano emersi gli elementi di sciatteria, pressapochismo e vero e proprio errore metodologico che non possono non caratterizzare, almeno da un certo punto in poi, gli scritti di chi sostiene in coscienza posizioni come le sue. Questa indagine retrospettiva, oltre a mettere in discussione il posto di professore ordinario di Castrucci, potrebbe e dovrebbe chiamare in causa i responsabili della sua carriera, e far loro rendere conto di procedure di selezione e conferma chiaramente inadeguate.
In questo modo si otterrebbe il risultato di non fare di Castrucci un autoproclamato «martire» del libero pensiero con una sanzione esclusivamente individuale; si darebbero radici eminentemente professionali alle sanzioni conseguenti ai suoi gesti; si farebbe luce sul sistema di collusioni e di silenzi che ha permesso a una figura così inadeguata di restare in cattedra per anni, chiarendo che le responsabilità non sono soltanto sue.
In questo modo si otterrebbe il risultato di non fare di Castrucci un autoproclamato "martire" del libero pensiero con una sanzione esclusivamente individuale; si darebbero radici eminentemente professionali alle sanzioni conseguenti ai suoi gesti; si farebbe luce sul sistema di collusioni e di silenzi che ha permesso a una figura così inadeguata di restare in cattedra per anni
Più in generale, poi, riflettere sui caratteri fondamentali della professione accademica e sulla necessità di una verifica continua della loro soddisfazione potrebbe far bene al sistema universitario nel suo complesso. Se i meccanismi di valutazione dell’idoneità professionale e della qualità della ricerca e della didattica si concentrassero, piuttosto che su astratti livelli di «eccellenza» spesso concepiti in senso puramente quantitativo, su come individuare più prontamente casi di palese inadeguatezza come questo, si sarebbe fatto un passo avanti per offrire un ambiente universitario più vivibile. Allo stesso modo, se i codici etici delle università venissero concepiti non tanto come manuali di buone maniere per non offendere il potente di turno e non mettere in cattiva luce i propri vertici impegnati nella competizione per i finanziamenti ministeriali, quanto per tracciare un insieme di comportamenti da cui risultino le qualità professionali richieste ai docenti per la loro funzione, le possibilità di produttiva interazione tra alta cultura e società sarebbero decisamente più significative.
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