I risultati delle elezioni in Spagna. È andata esattamente come previsto: dai sondaggi dell’estate, che per quanto riguarda la governabilità avevano previsto lo stallo, a quelli dell’ultimo mese sui risultati delle varie forze politiche, fatta eccezione per le dimensioni del successo di Vox e il crollo di Ciudadanos. Un esito dunque scontato, un voto inutile, un regalo alla destra estrema. Facendo il confronto con i risultati delle elezioni politiche del 28 aprile scorso, il voto del 10 novembre ha assegnato al Psoe 120 deputati con il 28% dei voti (ne aveva 123 pari al 28,6% dei voti), a Unidas Podemos e ai suoi alleati 35 deputati con il 12,8% dei voti (ne aveva 42, pari al 14,3%), non compensati dai 3 seggi ottenuti da Más País di Iñigo Errejón, nato da una costola di Podemos. Il Pp che ne aveva 66, pari al 16,6% dei voti, ne ha ottenuti 88 con il 20,8% dei voti, a scapito di Ciudadanos che di seggi ne ha persi 47, crollando anche in percentuale dal 15,8 al 6,8%. Allarmante il successo di Vox che in termini percentuali è passato dal 10,2 al 15,1%, più che duplicando i propri seggi, passati da 24 a 52. I partiti nazionalisti e regionalisti hanno ottenuto ovunque buoni risultati. Nei Paesi baschi il Pnv ha eletto 7 deputati (ne aveva 6), Bildu 5 (ne aveva 4). In Catalogna alla flessione della storica formazione di Erc, che ha ottenuto 13 seggi (ne aveva 15), ha corrisposto la conquista di 2 seggi da parte del nazionalismo radicale e di classe della Cup (non presente alla precedente elezione) e l’incremento di un seggio delle forze nazionaliste di centro-destra, JxCat che ha eletto 8 deputati (ne aveva 7).
L’affluenza, che era stata del 75,7% il 28 aprile, è scesa al 69,8%. Segno evidente della stanchezza dell’elettorato e della delusione per la mancata formazione di un governo. L’astensionismo ha colpito più gli elettori delusi dalla sinistra, mentre l’elettorato di destra ha disertato meno le urne. Percentuali e seggi non rivelano adeguatamente gli spostamenti reali in termini di voti. Di fatto Psoe e Up hanno perso circa 1,5 milioni di consensi, dei quali solo i 554 mila di Más País sono rimasti a sinistra, mentre il Pp e Vox ne hanno guadagnati rispettivamente 662 e 962 mila, strappandoli a Ciudadanos, che comunque ha perso per strada 2,5 milioni di voti.
Complessivamente considerate le forze di sinistra (Psoe, Unidas Podemos con i suoi alleati e Más País) hanno ottenuto il 42,9% dei voti e 158 deputati, (avevano il 43,6% e 166 deputati), mentre le destre hanno ottenuto il 43,1% dei voti e 152 deputati (avevano il 43,2% e 149 deputati). Ma se le sinistre nel loro complesso dopo le elezioni del 28 aprile avevano bisogno di 10 voti per arrivare alla maggioranza di 176, ora avranno bisogno di trovarne 18.
Sull’esito del voto hanno influito in notevole misura le pesanti condanne del Tribunale Supremo ai leader indipendenti catalani, che hanno scatenato un movimento di protesta in Catalogna e la conseguente radicalizzazione a destra del nazionalismo spagnolista, ma certo non trascurabile è stato il peso dell’incapacità mostrata dalle sinistre di varare un esecutivo dopo le elezioni del 28 aprile.
In definitiva la destra è avanzata in termini di voti, percentuale e seggi, pur restando lontana dai 176 voti necessari per governare. La sinistra si è allontanata dalla soglia dei 176 voti, pur confermando la propria prevalenza sulla destra in termini di seggi. Considerando che Pedro Sánchez era voluto ricorrere alle urne per rafforzare il Psoe e rendere più agevole la strada a un suo governo in solitudine, lo smacco subito il 10 novembre non avrebbe potuto essere più clamoroso e iscrive d’ufficio il leader socialista nell’album di quel cameronismo di cui si è scritto su queste pagine (a maggior ragione se si considera che l’impatto che avrebbe avuto in Catalogna e in tutta la Spagna la sentenza contro i leader indipendentisti era tutt’altro che imprevedibile).
Provando a ragionare su scenari futuri ed escludendo nuove elezioni anticipate, in base ai numeri esistono due maggioranze possibili con altrettante varianti. La prima è quella che potrebbero formare Psoe, Up e Más País, contando sul sostegno di tutti i partiti nazionalisti (indipendentisti compresi). La possibile variante di questa soluzione sarebbe quella di sostituire il voto degli indipendentisti con quello di Ciudadanos. La seconda maggioranza sarebbe quella che potrebbero formare il Psoe con il Pp. In questo caso la possibile variante sarebbe quella di aggregarvi Ciudadanos, il nazionalismo moderato di Pnv e alcuni partiti regionalisti. Passando dalla possibilità alla probabilità, delle due la seconda appare, allo stato, la più improbabile. Com’è noto, l’articolo 99 della Costituzione spagnola consente, a partire dal secondo voto di fiducia (a cui può seguirne un terzo a distanza di due mesi dal secondo), che il presidente incaricato entri in funzione con una maggioranza semplice, purché i voti contrari non superino le astensioni. Era quanto Sánchez si era proposto di ottenere nell’estate senza riuscirci ed è quanto, almeno sulla carta, potrebbe riprovare ora.
Sánchez diede il meglio di sé quando fu messo in minoranza nel suo partito proprio per aver rifiutato di favorire l’insediamento di Mariano Rajoy con l’astensione dei socialisti. Con determinazione e tenacia fece appello alla base e, dopo aver vinto le primarie, tornò alla guida del partito, per poi presentare la mozione di sfiducia che, defenestrando Rajoy, lo portò alla guida del governo. Dettaglio non trascurabile è che la mozione di sfiducia ottenne la maggioranza alla Camera grazie al voto di Podemos e di tutti i partiti nazionalisti. La tenacia si è trasformata in testardaggine dopo le elezioni del 28 aprile, quando si è mostrato troppo rigido con Unidas Podemos. L’impressione è che resti abbarbicato a un sistema dei partiti che non c’è più e che non voglia fare i conti con il nuovo quadro politico, nel quale gli attori del gioco non sono più due, ma cinque (sei con Más País), mentre è rimasto intatto il ruolo determinante per la formazione delle maggioranze che possono giocare i partiti nazionalisti.
In definitiva restano sul tappeto le stesse soluzioni che si erano profilate dopo il 28 aprile, con un grappolo di interrogativi che solo nelle prossime settimane troveranno risposta. Sopravviverà Ciudadanos alle dimissioni del proprio leader, Albert Rivera, che ha contestualmente rinunciato al seggio e annunciato l’abbandono della vita politica? E qualora continuasse a esistere, a quale sponda approderà dopo essere stata per anni la forza politica più ondivaga? Saprà il leader dei popolari, Pablo Casado, proporsi come alleato ai socialisti o anche solo astenersi per scongiurare quello che ai suoi occhi sarebbe il peggiore dei mali, cioè un governo di sinistra aperto al dialogo con l’indipendentismo catalano? Vorrà Pablo Iglesias ridurre le pretese per entrare in un eventuale governo di coalizione, che sarebbe il primo nella storia della democrazia spagnola postfranchista? Ma soprattutto e infine: sarà capace Sánchez di far tesoro della lezione?
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