California Dreamin’. Davvero l’assemblea legislativa dello Stato della California ha approvato una proposta di legge, AB5, che impone alle imprese della gig-economy di inquadrare i propri lavoratori come subordinati? La notizia è sensazionale, non solo per gli addetti ai lavori. La scelta dei policy-maker, infatti, segnerebbe un punto di svolta nel dibattito annoso che ha visto protagonisti i tribunali di mezzo mondo e arriverebbe all’indomani di una prova di forza in termini di advocacy messa in atto da una coalizione di accademici. A dire il vero, la legge si inserisce nel solco di una pronuncia giudiziale che aveva lasciato il segno, il caso Dynamex, con cui si era stabilito che, ai fini dell’applicazione della legge sul salario e sull’orario di lavoro, andava applicato il cosiddetto test “ABC”. Secondo questo schema, le imprese che decidono di servirsi di freelance sono tenute a provare che (a) il lavoratore è in tutto e per tutto libero di organizzare il proprio lavoro; (b) il contributo dello stesso non è centrale rispetto all’attività ordinaria dell’impresa cliente e, di conseguenza; (c) il suo apporto ha una natura diversa rispetto alle attività condotte abitualmente dal cliente. Questa matrice, in forma semplificata, è stata di fatto adottata dal senato californiano con un provvedimento che potrebbe scatenare un sorprendente effetto domino. A ben vedere, è anche plausibile che altri Stati americani scelgano deliberatamente di rendersi ospitali nei confronti delle società interessate dalla legge californiana, scommettendo sull’attrattività della deregulation.
La notizia ha una portata storica, al netto dei sensazionalismi, dal momento che proprio nella culla dell’innovazione i decisori pubblici hanno ritenuto di prendere una posizione non scontata che contraddice una retorica martellante sulla presunta incompatibilità di alcuni modelli di business con gli schemi normativi e contrattuali vigenti (una narrazione che ha finito per convincere molti autisti di Uber, ad esempio, della alternativa ineludibile tra flessibilità e protezioni). Proprio sulle pagine del Mulino si è argomentato che il contratto di lavoro subordinato offre ampi margini di flessibilità organizzativa e rappresenta un elemento chiave per imprese che intendano offrire servizi in contesti incerti, mutevoli o rischiosi. Al contrario, la scelta di operare tramite contrattisti esterni, cottimisti o, per usare un’espressione in voga, gig-worker ha alla base ragioni molto più prosaiche, talvolta legittime, spesso rapaci.
Di sicuro, anticipando un argomento che sarà messo in campo per avversare la misura californiana, una forza lavoro di natura subordinata non manda all’aria il modello organizzativo delle piattaforme. Tant’è vero che diversi operatori hanno da tempo adottato questa formula per soddisfare le richieste sempre più esigenti dei consumatori. Rapporti stabili implicano la possibilità di esercitare pienamente le prerogative datoriali che, a loro volta, assicurano una gestione flessibile della forza lavoro e, più in generale, rappresentano uno schema adattabile per la gestione aziendale. In sintesi, non si condannano i lavoratori alla rigidità, né si paralizzano le app.
Intanto la cronaca. Il senato della California ha approvato un testo molto progressista, e il governatore Gavin Newson si appresta a firmarlo, dopo essersi speso favorevolmente nei suoi confronti. In particolare, la legge prevede che, nel caso in cui un’impresa – per mano dei suoi manager – eserciti un controllo sull’attività dei lavoratori o ancora se il contributo degli stessi costituisce parte integrante del core business aziendali, quest’ultimi devono essere contrattualizzati come dipendenti e non possono essere (falsamente) etichettati come contrattisti esterni. Come si può intuire, la svolta è significativa sotto due punti di vista: per il dove e per il come.
Il dove. Si stima che in California siano almeno un milione i lavoratori esternalizzati, oggi interessati dal nuovo provvedimento legislativo. Si tratta di una schiera di professionisti che operano nei campi più disparati, rappresentando in molti casi il cuore pulsante di diverse imprese che, tuttavia, preferiscono non averli in organico, pur esercitando un controllo stringente sulle loro prestazioni. David Weil, economista del lavoro che sotto l’amministrazione Obama ha guidato la divisione “Wage and Hour” dell’equivalente statunitense del nostro ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, ha raccolto in un testo molto apprezzato diversi quadretti di un fenomeno etichettato come “impresa crepata”. Prendendo in prestito la casistica degli studi morfologici, Weil ha illustrato diverse situazioni accomunate da una costante, l’assenza di un contratto di lavoro subordinato tra impresa e lavoratore: cameriere assunte da una società di pulizie che ha un appalto per la grande catena di hotel, installatori di cavi – autonomi sulla carta – al servizio da anni per la stessa società di telecomunicazioni, fattorini che consegnano pacchi a nome di una società della logistica e per conto di un noto campione della grande distribuzione organizzata, muratori a chiamata ingaggiati giornalmente per completare la stessa commessa, rider che indossano gli zaini della nostra app preferita con cui hanno al più un rapporto di collaborazione. Lo sciame sismico, il cui epicentro potrebbe essere individuato proprio nella West Coast, si è allargato a dismisura, finendo per rappresentare il modello paradigmatico di lavoro nell’economia delle piattaforme. Ma non solo, basti pensare ai mondi dell’editoria, dei servizi alla persona, delle pulizie, della ristorazione, dell’alta formazione.
Quella che nei prossimi giorni sarà descritta come una ferita mortale per le app della gig-economy è una iniziativa attesa da tempo, i cui meriti vanno ben oltre la risposta politica a certe spavalderie del mondo del tech. Al contrario, come rivendicato da tempo, il lavoro tramite piattaforma digitale è soltanto la forma più visibile, e probabilmente tollerata in nome del fanatismo digitale, di un fenomeno antico. La qualificazione del rapporto di lavoro è infatti un elemento chiave della normativa lavoristica, dal momento che segna una sorta di confine, in genere invalicabile, molto più spesso labile, nella definizione del campo di applicazione del grosso delle tutele associate al lavoro dipendente. Si può certamente aprire una riflessione sulla capacità di tale modello “dentro o fuori” di offrire risposte alle contingenze mutevoli del mondo produttivo di oggi, in cui prevalgono discontinuità e dinamismo. Tuttavia, i test che nel tempo sono stati sviluppati dalle corti di Common Law, così come pure quelli elaborati nei Paesi di tradizione di diritto positivo, hanno valorizzato l’indice del controllo quale criterio per discernere un rapporto di lavoro subordinato da uno di opere, di fornitura, o di consulenza. Val la pena precisare che anche i tribunali italiani si sono trovati al cospetto di questa “spia”: nel caso in cui la libertà del lavoratore nel definire il se, il come e il quando della prestazione sia inesistente, il rapporto – pur se inquadrato come autonomo – è da considerarsi subordinato, e trattato di conseguenza sul piano dei diritti. In California si è valorizzato anche un altro indice, per certi versi di natura organizzativa.
In Italia, e più in generale in Europa, l’intervento legislativo sconta un certo ritardo, a cui spesso si supplisce con misure raffazzonate che finiscono per intorbidire le acque, a scapito di lavoratori e imprese. Le istituzioni europee, dopo un’intensa fase di approfondimento, sono attese al varco. Da ieri, il Commissario designato con delega al Lavoro – nella nuova squadra di Ursula von der Leyen – ha ricevuto un mandato specifico ad occuparsi dell’“attuazione della normativa lavoristica in fatto di condizioni di lavoro decenti, prevedibili e trasparenti in particolare a beneficio dei lavoratori delle piattaforme”. Si tratta di una missione tempestiva ed ambiziosa, che potrebbe segnare il riscatto della dimensione sociale dell’Unione europea. Ci si aspetta dunque un cambio di passo anche al di qua dell’Atlantico, e persino nel nostro Paese, magari sulla scorta del successo che i Dik Dik ebbero con la fortunata cover del pezzo dei The Mamas & the Papas.
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