All’indomani della crisi di governo, il Partito democratico ha messo sul tavolo del confronto politico alcune questioni centrali. Tra queste, quella di una netta trasformazione strutturale della nostra economia per uscire dalla trappola mortale in cui tutta l’Europa è caduta. Si tratta di una scelta chiara, in cui la crescita viene fondata sulla sostenibilità ambientale e sulla definizione di un nuovo modello di sviluppo, di cui proprio il concetto di sostenibilità è il perno fondante.

Già a Lisbona quasi vent’anni fa questo nuovo modello di sviluppo era stato definito dalla Commissione europea. La strategia disegnata allora prevedeva che in dieci anni l’Europa dovesse divenire la più dinamica e competitiva economia della conoscenza. A un impegno su innovazione, capitale umano, educazione, inclusione sociale e pari opportunità si aggiungeva una decisa scelta a favore della sostenibilità ambientale, quale asse necessario su cui consolidare l’economia della conoscenza. Quella scelta lungimirante poneva l’enfasi non solo sulla “green industry” – cioè sulla necessità di sviluppare un comparto che assumesse il compito di razionalizzare il ciclo dei rifiuti, ridurre le emissioni, conservare l’acqua come bene comune – ma soprattutto si concentrava su ciò che veniva chiamato “greening the industry”, cioè sulla necessità di porre in campo in Europa un’azione per rendere l’intero sistema economico rivolto alla sostenibilità. Una vasta azione, dunque, che implica tuttora un ripensamento complessivo di tutta l’economia, per delineare un sistema produttivo capace di trarre la propria capacità innovatrice dall’obbligo di garantire non la sola sostenibilità bensì la rigenerazione dell’ambiente in cui tutti viviamo.

Dopo vent’anni ci siamo ritrovati trascinati in una lunga crisi, nata proprio dall’aver abbandonato l’economia alla finanza e all’illusione che il mercato potesse essere l’unico regolatore della vita collettiva. E proprio di fronte agli esiti di questa “rimozione collettiva della politica”, in tutto il mondo sono state date risposte reazionarie e populiste che hanno consegnato l’Europa a una crescita zero, per giunta non sostenibile, portando la tentazione suicida di cercare nuove chiusure, nuove fratture, nuovi egoismi.

Eppure l’opzione “sostenibilità” pare l’unica via possibile per poter rilanciare un’economia ad alto valore aggiunto, che incorpori tanta ricerca e tanta educazione, con la piena valorizzazione delle persone e delle loro competenze. Un’economia sostenibile per crescere richiede una visione integrata, aperta e inclusiva della società, che si contrappone nettamente a quella proposta dalle destre in tutta il nostro continente. Del resto, è proprio in questa visione che le nostre imprese possono riconquistare una posizione competitiva e trainante nell’economia mondiale, integrandosi con il sistema scientifico e della ricerca che dispone – se adeguatamente finalizzato e sostenuto – delle competenze e delle capacità necessarie a sostenere un tale sforzo di cambiamento strutturale della nostra economia, offrendosi come guida all’intera Europa e a tutto il mondo occidentale.

L’“opzione sostenibilità” significa porre i bisogni emergenti delle persone e delle comunità al centro dello sviluppo. La rivoluzione industriale conosciuta oggi come “Industria 4.0” permette di “personalizzare” la produzione, consente cioè di dare risposte mirate a bisogni specifici – come nell’antico artigianato – ma su grandi numeri, come nella moderna manifattura. Questo modo di produrre implica incorporare nella produzione più servizi, più conoscenza, più ricerca, più educazione. Una parte rilevante del nostro sistema industriale opera già in questa direzione, ma ha bisogno di scelte politiche chiare, di certezze e stabilità per realizzare quegli investimenti che possano agire da acceleratore di tutta l’economia per estendere l’area della crescita a tutto il Paese.

Una scelta di sostenibilità economica – e quindi sociale – apre la via a ripensare i grandi comparti della nostra industria, a partire dall’edilizia e quindi dall’organizzazione delle città, alla mobilità sia privata sia pubblica, alle industrie dei materiali, dalla chimica alla siderurgia, ma anche alla sicurezza alimentare e ai grandi comparti dell'economia pubblica, dalla salute e dall’ invecchiamento dei cittadini, alla gestione dell’acqua e del territorio. Una scelta che, se compiuta coerentemente, apre opportunità proprio per imprese come le nostre, capaci di organizzare in tempi rapidi reti di competenze per rispondere a bisogni specifici in grande dimensione, creando nuovo lavoro di qualità.

Questa economia della sostenibilità si nutre di ricerca ed educazione, ed è su questo terreno che va ora decisamente focalizzata l’attenzione: le nostre università e i nostri centri di ricerca, presentandosi frammentati nella competizione internazionale, non hanno ancora espresso tutto il loro potenziale, continuando tuttavia a fornire competenze a molti istituti di ricerca internazionali. Le trasformazioni industriali oggi già in corso si basano sullo sviluppo di quell’incrocio tra big data e Intelligenza artificiale, in cui proprio l'Italia può giocare una carta in più da quando l’Europa ha deciso di posizionare a Bologna il centro di supercalcolo che serve da infrastruttura di sviluppo per l’intero continente. Un centro in cui opereranno contestualmente il supercomputer dell’Agenzia europea per le previsioni metereologiche, essenziale per ogni intervento sul cambiamento climatico, e “Leonardo”, il più potente calcolatore presente in Europa per lo sviluppo del sistema scientifico e produttivo.

Nel prepararsi al confronto sui programmi per un possibile governo del Paese, dunque, si è posto un tema di dimensione nazionale ed europea. Che tuttavia, proprio per la sua piena attuazione, dovrà tenere conto di quanto già realizzato nelle regioni in cui sono andate avanti scelte coraggiose e competenti. E dove – come spesso accade – la vicinanza con imprese e università per un verso, e con i cittadini per l’altro, ha già creato condizioni per un rilancio di quella indispensabile volontà di sviluppo che a Roma si tarda a cogliere in tutta la sua rilevanza.