Tra flussi e riflussi, la sinistra europea è giunta al gorgo, un baratro che tutto aspira e nulla rilascia. Ciò che resta della gauche si sta sfaldando per mancanza di idee: lo si nota nella modestia dei suoi obiettivi, quasi tutti legati alla difesa dell’esistente. Ma la gente intuisce che l’esistente non va bene: crea troppa diseguaglianza. C’è da correggere qualcosa nel profondo del sistema economico. Ogni volta che qualche leader sembra poterle portare tale cambiamento, l’elettorato gli si affida, pronto a ritirarsi rabbioso non appena si accorge che ciò non accade. Più il tempo passa e più tale processo diviene rapido: ci sono voluti dieci anni per sfiduciare Tony Blair, cinque per mandare via Hollande, tre per cacciare Renzi. La pazienza è finita.
La cosa che accomuna i tre casi è l’astio per i tre citati, addirittura sproporzionato alle loro gesta e ai loro eventuali errori. Tuttavia esso è pari solo alla fiducia accordata all’inizio: significa che la delusione è stata enorme. Per leader meno carismatici (Gordon Brown, Jospin o Bersani) l’ostilità è minore perché da loro ci si aspettava molto meno. Dovrebbe ormai essere chiaro: per la gente “sinistra” oggi significa “cambiamento di sistema economico” e “lotta alle diseguaglianze”. La creazione di lavoro è al centro di tutto. Qualunque potenziale leader della sinistra occidentale che non comprenda questo ha perso in partenza. Ciò spiega l’affermarsi di populismi e destre estreme. La gente che vota è la stessa ma cambia completamente voto perché l’epoca delle ideologie è terminato e con essa anche quello delle fedeltà a prescindere. In attesa di qualcosa di nuovo, gli elettori possono affidarsi alla destra, anche sovranista ed estrema, che riprende vecchie ricette. Gli elettori lo sanno o lo intuiscono, ma sperano che almeno ciò permetta loro di resistere un altro po’. Affidarsi ai populisti può portare al “salto nel buio” di cui parla il rapporto Censis rispetto all’Italia. Storicamente i populisti non hanno programma: lo adattano alle circostanze, può essere di destra o di sinistra o di entrambi i colori allo stesso tempo. Dal momento che “la cosa ha preceduto la parola”, il vantaggio del populismo è di poter utilizzare come scopo un registro che in genere si limita al mezzo: le emozioni, la rabbia. Più che con il popolo stesso, il leader populista si allinea sugli umori del popolo, spesso un popolo immaginario, sempre un popolo volubile.
In tempi di atomizzazione e solitudine, dire “popolo” non ha lo stesso significato del passato: non vuol più dire quasi nulla, al massimo una mutevole convergenza con una folla spinta dalle emozioni del momento. Per il populismo vige infatti una speciale logica da pompiere-piromane a ciclo continuo. Si tratta di un animale politico sfuggente: mentre i suoi oppositori si concentrano sulle compatibilità oggettive, il populismo si è già spostato secondo l’onda emotiva. Allo stesso modo mentre i suoi nemici per inseguirlo optano per un difficile “ritorno al popolo” (torniamo fra la gente), il populismo “fabbrica il popolo” mediante un processo di sovversione e ricostruzione. Per questo non va inseguito ma contenuto e “costretto” all’interno delle regole dei trattati, di quelle costituzionali e legali, senza dargli la possibilità di eluderle. La democrazia infatti è il prodotto non solo di elezioni ma di checks and balances dei poteri. Sono proprio tali regole a costituire la più valida difesa della democrazia stessa, quella rappresentativa di stampo liberal-democratico che è la più avanzata. Ma affidarsi alle regole non significa devolvere tutto alla magistratura, tipica scorciatoia utilizzata dalla sinistra italiana (e non solo), in realtà capitolazione dalle proprie responsabilità politiche. Non significa nemmeno immettere nella società ulteriore incertezza invocando improbabili cambiamenti istituzionali. Significa invece consolidare l’assetto istituzionale che esiste facendolo funzionare a dovere. È questa l’unica vera “tradizione” che ci salva dal caos.
Ma dopo le regole ci sono le persone. Iniziare di nuove a partire dalle persone è il passo successivo: parlare nella società disorientata dagli effetti della globalizzazione e dalle grida populiste. In Europa la sinistra non ha più il “monopolio del cuore” che credeva di avere, non sa esprimere cioè il sogno di un futuro migliore. Ha troppo ceduto alla logica del “it’s the economy, stupid” di stampo blairiano, si è troppo adagiata ad ascoltare le sirene liberiste che promettevano un mondo dove il mercato avrebbe “fatto salire la marea e con essa tutte le barche”. Si è addirittura vergognata di “chiedere l’impossibile” ed è stata realista in senso deleterio e quasi pessimista. Il mantra del mercato ha assorbito tutte le sue energie. Quando anch’esse si sono accorte dell’impasse, le destre hanno tirato fuori dai loro bagagli le vecchie dottrine nazionaliste e identitarie, logore ma sempre efficaci in momenti di crisi. Le sinistre non avevano nulla in cambio sul momento: non si poteva certo riciclare il comunismo e i suoi epigoni. Dopo tanti discorsi sul privato e sul privato-sociale, la stessa parola “socialismo” non aveva più senso, figuriamoci socialdemocrazia.
Occorre dunque uno scatto in avanti. Il nuovo pensiero che possa coinvolgere e dar luogo a un “flusso di vita e di idee” va trovato negli attuali bisogni della società. Essenzialmente: la solitudine, la non-autosufficienza, la convivenza. Oggi si vive da soli, per costrizione ma anche per scelta. Si tratta di una nuova circostanza per cui è stato necessario coniare un’apposita parola: aloneness, che si distingue dal tradizionale loneliness. Vivere individualmente è tanta parte dello spirito del nostro tempo. Il vivere “single” non è più percepito come un'aberrazione o una stranezza, ma la conseguenza inevitabile della cultura dominante. Molte sono le ragioni come l'urbanizzazione, le tecnologie di comunicazione o la longevità. Talvolta si tratta di una scelta individuale, ma la realtà nascosta è quella di molte storie di abbandono e solitudine, che riguarda in particolare gli anziani. Cambia così anche lo status della famiglia: da famiglie numerose (ieri) a quelle nucleari (oggi) a quelle monoparentali (oggi e domani). Allo stesso tempo aumenta il peso della non-autosufficienza: anziani più longevi ma da accudire, Alzheimer, malattie invalidanti, malattie mentali, autismo: la società non produce più da sola gli ammortizzatori per “diluire” e sostenere tali presenze, che solo in parte vengono istituzionalizzate. Per i disabili mentali non c’è più nulla dopo la scuola…
Tutto questo mette in gioco la qualità e la tenuta della convivenza dei nostri Paesi, a cui si aggiungono i migranti ma solo come ultimo fattore addizionale. Infine le sinistre hanno di fronte un altro grande tema: lavoro sostenibile mancante. L’innovazione distruggerà ancor più lavoro che in passato e solo parzialmente risponderà ai temi ambientali. C’è grande bisogno di una nuova riflessione creativa su come creare lavoro e/o attività per tutti ma in maniera sostenibile per l’ambiente. Se “cambio di sistema” deve avvenire, non può essere la decrescita felice ma soltanto un paradigma tutto nuovo di lavoro, necessariamente slegato dal mercato (che non può risolvere tutto con la crescita), ma connesso alla transizione ecologico-ambientale di cui tutti sentiamo il bisogno. Queste sono le sfide per una nuova sinistra in Europa, che né la destra né il populismo potranno mai risolversi di affrontare.
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