Le elezioni di midterm sono state vinte dai democratici. La conquista della maggioranza alla Camera, e il riequilibrio del numero dei governatori, aiuta a superare il trauma della disastrosa sconfitta del 2016, incrina il monopolio repubblicano sulle istituzioni politiche centrali e locali, permette un’opposizione efficace al presidente e ai suoi programmi, pone i democratici in posizione di maggior forza in vista delle presidenziali del 2020.Si tratta tuttavia di una vittoria striminzita, perché incapace di andar oltre un limitato riequilibrio fisiologico tra i partiti, controbilanciata dalla vittoria repubblicana in Senato, e incapace di ridimensionare Trump come leader popolare e campione di voti conservatori e populisti.
Vittoria solo fisiologica: quasi senza eccezioni il partito del presidente perde alle prime midterm. I democratici hanno conquistato 27 posti alla Camera, poco sopra i 23 necessari per la maggioranza. Un risultato nella media dei posti vinti dall’opposizione nelle midterm del dopoguerra, e al di sotto degli oltre trenta seggi in caso di presidente con popolarità sotto il 50% come Trump. La loro maggioranza alla Camera (220 a 193) è limitata e bastano quindici defezioni per approvare una misura repubblicana.
Inoltre la campagna elettorale condotta dal presidente in prima persona e basata sull’allarme sociale, sulla paura indotta dell’immigrazione (un grande tema transatlantico), sulle fake news con venature razziste, e sulla polarizzazione su sé stesso (con il sostegno nello sfondo di un’economia che va molto bene), complessivamente ha pagato: ha mobilitato l’elettorato conservatore, ha rafforzato la maggioranza in Senato, ha dimostrato che il suo sostegno a importanti candidati repubblicani è stato vincente, come in Florida o in Texas. In questo modo è probabile che la compattezza trumpiana del partito repubblicano non si incrini, e le voci di un “ritorno a Reagan” vengano tacitate (anche se l’ elezione a senatore del moderato, ex-candidato presidenziale, e critico di Trump, Mitt Romney, sarà una spina nel fianco). Un commentatore di parte ha titolato il suo pezzo: “I democratici hanno vinto la Camera e Trump ha vinto le elezioni”: una distorsione ma fa riflettere.
Le dichiarazioni vittoriose di Nancy Pelosi, leader democratica alla Camera, sottolineano il compito di controllare l’operato politico e le pratiche private del presidente, il quale cercherà a sua volta di adottare un’interpretazione estensiva, al margine dell’eterodossia costituzionale, dei suoi poteri esecutivi, soprattutto in politica estera.
Si può anche ipotizzare qualche tentativo di compromesso nel Congresso polarizzato. Tra i due partiti i democratici sono certo i più divisi, con diverse anime la cui coesione non è garantita.I risultati delle midterm non danno risposte certe sulla direzione da prendere. Non le danno sulla divaricazione tra partito centrista e clintoniano, e nuovi progressisti più giovani, con molte candidate donne (il Congresso ne avrà di più rispetto al passato, comprese due musulmane), molti candidati neri e nere, e di minoranza. Accanto a successi significativi, alcuni dei principali portabandiera della sinistra giovane del partito tuttavia sono stati sconfitti, mentre il portavoce centrista Andrew Cuomo è stato rieletto a valanga governatore dello Stato di New York.
Le midterm non danno egualmente risposta circa l’elettorato cui i democratici dovrebbero indirizzarsi. I loro incrementi di voto vengono soprattutto dalla classe media suburbana relativamente benestante ed educata, ed alienata dalla volgarità di Trump. Invece i “colletti blu,” il proletariato tradizionale, il ceto medio basso, nonché l’America rurale, hanno continuato a votare repubblicano. La geografia elettorale vede i democratici dominare molti stati urbani delle coste oceaniche, mentre l’America interna e profonda resta “rossa” (il colore dei repubblicani). Il radicamento stabile di alcune vittorie democratiche in contee del sud e del sud-ovest è ancora tutto da dimostrare. Quanti, come Cuomo, sostengono la necessaria riconquista del proletariato urbano-industriale perduto, a preferenza della “società arcobaleno” dei nuovi progressisti, non sono tuttavia poi pronti a sottoscrivere le coraggiose politiche socio-economiche di riduzione della diseguaglianza e sostegno ai salari che sembrano necessarie a questa strategia. Nel 2016 era stato proprio Bernie Sanders, cioè la sinistra del partito, a sottolineare la centralità della giustizia economica e sociale, disaccentuando in parte i temi del politically correct.
Dal 1995 a oggi i repubblicani hanno dominato il Congresso (Camera e Senato) per complessivi 18 bienni, i democratici per 7. Non è che, dopo i decenni postbellici di predominio congressuale democratico, e quelli successivi di alternanza, adesso siamo tornati al regime del “partito e mezzo,” ma capovolto: i repubblicani dominano stabilmente le istituzioni politiche del paese e i democratici vengono di rincalzo?
Tutti i commentatori parlano dell’America “società divisa.” Certamente, ma si può andare più in là. Abbiamo gioito increduli quando il Paese ha eletto a fine 2008 il suo primo presidente nero. Con Trump l’America bianca (e maschile) si sta prendendo una vendetta terribile. La transizione tra quest’ultima e “la società arcobaleno,” con tutte le loro rispettive gerarchie e implicazioni culturali, antropologiche, e ideali, è ancora, come in fondo è stata per tutta la storia del Paese, dolorosa e irrisolta.
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