Discontinuità, ma non troppo. Non c’è dubbio che la Nota di Aggiornamento al Def (d’ora in avanti Nota) rappresenti una discontinuità nella politica di bilancio, ma più nell’indicazione di una direzione, di un’intenzione, che nei numeri proposti. I governi precedenti fissavano obiettivi ambiziosi di consolidamento fiscale, che includevano, come da richieste europee, il raggiungimento del pareggio di bilancio entro l’orizzonte di programmazione (a cominciare dal governo Berlusconi, che nel 2011 annunciò il pareggio strutturale per il 2013). Obiettivi che venivano sistematicamente disattesi e rimodulati alla luce della difficoltà di realizzare correzioni fiscali così marcate e del fatto che le correzioni realizzate avevano effetti depressivi sulla crescita maggiori di quanto previsto. Tuttavia, tali correzioni avvenivano con l’accordo della Commissione, che concedeva flessibilità sulla base delle avverse condizioni economiche generali o a fronte della realizzazione di riforme strutturali in linea con le proprie raccomandazioni. Se guardiamo al deficit (indebitamento netto) degli anni passati, troviamo valori di poco inferiori al 3%, in lenta riduzione fino al 2,4% a consuntivo del 2017 e al 1,8% previsto per il 2018.
La discontinuità è dunque nel fatto che quest’anno il governo italiano dichiari in anticipo che non intende raggiungere il pareggio, per lo meno non nel prossimo triennio, e anzi scelga deliberatamente la strada dello stimolo fiscale per rilanciare la domanda interna, portando il deficit 2019 al 2,4%. Chi scrive è tra coloro che hanno dubitato fin dall’inizio dell’efficacia delle politiche di austerità come soluzione al problema dell’elevato debito, ritenendo che fosse preferibile una strategia di consolidamento più graduale, per stabilizzare il debito puntando a un maggior sostegno a domanda e occupazione. In questo senso, non può dispiacersi del fatto che la Nota annunci «un cambiamento profondo delle strategie di politica economica e di bilancio», che dia priorità alla ripresa della crescita e dell’occupazione e scommetta su una riduzione del rapporto debito/Pil più lenta ma meno costosa in termini sociali.
Nei primi commenti c’è chi ha parlato di previsioni irrealistiche. Se prendiamo per buone le stime dell’andamento tendenziale della nostra economia indicate nel Def di aprile e corrette per tenere conto del peggioramento nel frattempo intervenuto nell’andamento dell’economia, l’impulso fiscale programmato per il 2019 può essere misurato dalla differenza tra il deficit a legislazione vigente (che incorpora anche l’aumento dell’Iva previsto dalle legge di bilancio precedenti), indicato all’1,2%, e il deficit programmatico, che il governo ha fissato al 2,4%. Una differenza analoga a quella misurabile sul saldo strutturale, che per il 2019 dovrebbe aumentare fino all’1,7% invece di ridursi allo 0,4% come previsto dal Def di aprile. A fronte di un aumento del deficit (1,2-1,3%), si ipotizza una maggiore crescita del Pil per il 2019 pari allo 0,6% (passando dallo 0,9% previsto a legislazione fino al 1,5% del quadro programmatico). Non si tratta di un valore in alcun modo esagerato, visto che il moltiplicatore “implicito” è pari a 0,5.
Vale la pena di ricordare che, nella Nota di aggiornamento presentata un anno fa dal ministro Padoan, il Mef quantificava un moltiplicatore di 1,1 per la spesa e di 0,4 per le entrate (nel primo anno, in aumento allo 0,8 negli anni successivi). Le stime sull’impatto della manovra proposte da questo governo appaiono dunque del tutto in linea con quelle considerate valide dal governo precedente (e generalmente accettate come ragionevoli dagli istituti di ricerca). Si tratta di valori che giustificano politiche di consolidamento meno rigide di quelle finora adottate sulla scorta dei vincoli europei. Coerentemente con le previsioni proposte, la stima dell’andamento del debito prevede una riduzione in rapporto al Pil – che dall’attuale 131% dovrebbe scendere nel giro di tre anni sotto il 127%, una riduzione di entità inferiore a quanto richiesto da un’applicazione rigida della “regola del debito” prevista dai vincoli europei, ma comunque, qualora verificata a consuntivo, tale da proseguire lungo un sentiero di risanamento.
Le ombre. Anche per chi condivide in linea generale una strategia che punti maggiormente alla crescita del Pil tramite uno stimolo alla domanda interna, il quadro delineato dal governo non è in grado tuttavia di fugare perplessità e preoccupazioni. Un primo dubbio riguarda la correttezza delle previsioni di crescita, non tanto rispetto all’effetto dell’impulso, quando allo scenario tendenziale alla base delle stime proposte. Benché coerente con le previsioni della scorsa primavera e “validato” dall’ufficio di bilancio, esso rischia infatti di risultare ancora troppo ottimistico alla luce del rallentamento generale dell’economia. C’è poi l’incertezza sull’entità effettiva degli interventi annunciati ma non ancora dettagliati nella Nota (che si limita a proporre i saldi aggregati, rinviando i dettagli alla Legge di Stabilità): il disinnesco dell’aumento dell’Iva, l’introduzione del reddito di cittadinanza, l’intervento sull’età pensionabile, la prima tranche della flat tax e la realizzazione degli investimenti annunciati hanno un costo complessivo che si stima superiore ai 30 miliardi di euro. Visto che il maggior deficit supera di poco i 20 miliardi, mancano all’appello oltre 10 miliardi, da recuperare con riduzioni di spesa o aumenti di imposte (questi ultimi tuttavia esclusi dal governo). Nella Nota si accenna a un intervento sulle detrazioni fiscali e si conta su provvedimenti una tantum come la “pace” fiscale, ma resta forte il timore che alla fine si possa ricorrere a tagli di spesa, al momento non specificati. Se poi i tagli si rivelassero politicamente non praticabili, il rischio è che quel deficit possa lievitare sopra il 2,4, avvicinandosi o addirittura superando la soglia del 3%.
Un secondo ordine di dubbi e preoccupazioni riguarda il fatto che il grosso dell’aumento del deficit sia determinato dalla disattivazione dell’aumento dell’Iva (12 miliardi) e dal mantenimento delle promesse relative al reddito di cittadinanza e alle pensioni (15 miliardi). È stato correttamente rilevato che un aumento della spesa in deficit sarebbe stato maggiormente giustificabile se utilizzato per finanziare la spesa per investimenti. Ciò avrebbe reso certamente più forte la posizione dell’Italia in una negoziazione con Bruxelles. Nella Nota il governo dà grande enfasi al tema degli investimenti, ma le somme che vi destina sono limitate (0,2% del Pil nel 2019, 0,3% nei due anni successivi); occorre d’altra parte osservare che la spesa per investimenti richiede tempo per essere attivata, ed è spesso rallentata da ostacoli di tipo burocratico, regolamentare e tecnico. In questo senso è corretta l’insistenza della Nota sulla necessità di mettere in condizione gli enti locali di spendere le risorse in proprio possesso attraverso supporto tecnico e semplificazione delle procedure.
Un commento a parte meriterebbe l’intervento previsto in materia tributaria. Si è parlato molto di flat tax, ma il primo intervento previsto va in una direzione che contraddice la logica della semplificazione del sistema: si tratta di un’ampliamento dell’area di applicazione del regime fiscale speciale attualmente previsto per i lavoratori autonomi e le imprese di più piccola dimensione. L’obiettivo politico è chiaramente quello di compiacere l’elettorato di riferimento della Lega. In fondo, è un altro spiacevole esempio di quella politica dei “bonus” a favore di categorie specifiche di contribuenti cui ci hanno purtroppo abituato anche gli ultimi governi. Il provvedimento, pur avendo un impatto limitato in termini di costi, rischia di assestare un ulteriore decisivo colpo alla coerenza del nostro sistema fiscale.
La partita è politica e riguarda la Ue. In conclusione, sulla manovra ci sentiamo di avanzare un giudizio articolato, critico su alcuni aspetti ma certamente meno severo di quello che sembrerebbe emergere dalla prima reazione di sfiducia dei mercati finanziari. Non è facile in effetti interpretare tale reazione guardando semplicemente ai valori del deficit o alle previsioni sul debito, la cui sostenibilità non è certo messa in discussione da una deviazione così contenuta.
Causa del nervosismo dei mercati è più plausibilmente il segnale di aperta sfida che la manovra rappresenta rispetto all’indirizzo della Commissione Ue, segnale amplificato da dichiarazioni politiche non certo concilianti dei membri del governo, nonché dalle non rituali espressioni di preoccupazione manifestate dei rappresentanti europei. L’intenzione di ignorare deliberatamente le regole europee, seppure in misura così limitata, è stata letta da investitori e risparmiatori come un’ulteriore spinta centrifuga nell’Unione; è risultato a tutti chiaro che non basta l’indicazione di un ministro dell’Economia più conciliante a disciplinare le politiche del governo italiano. Il fatto che questo sia espressione di forze dichiaratamente euroscettiche rende d’altra parte la Commissione poco disposta a concedere margini di manovra, magari nella speranza che le turbolenze di mercato possano spingere a più miti consigli. La reazione dei mercati riflette insomma la sfiducia nella tenuta complessiva dell’Eurozona, e incorpora il rischio di una sua possibile rottura, che può avere come epicentro proprio l’Italia. Pur negando di cercare deliberatamente l’uscita dalla moneta unica, il governo italiano ha fatto della sfida all’attuale assetto dell’Unione il cavallo di battaglia della propria linea politica in vista delle elezioni europee. L’innalzamento degli spread può essere considerato come il costo – non sappiamo quanto calcolato – di questa strategia.
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