Qualche giorno fa Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli hanno scritto per il "Corriere della Sera" un interessante editoriale volto a confutare la tesi che per ridurre il rapporto tra debito e Pil italiano, e quindi rendere più sostenibili le finanze pubbliche, occorrerebbe concentrarsi sulla crescita piuttosto che sulla riduzione del debito da perseguire con significativi avanzi di bilancio primari (vale a dire al netto degli interessi).
Cottarelli e Galli rispondono in particolare a Giorgio La Malfa, che aveva invocato un programma di investimenti pubblici strumentale a un cambiamento di “filosofia”: invece di concentrarsi sugli obiettivi di finanza pubblica definiti dai trattati europei, La Malfa proponeva di stabilire un obiettivo di crescita che consenta (tra l’altro) di stabilizzare il rapporto tra debito e Pil, e mettere in campo le politiche adatte per conseguire l’obiettivo.
Cottarelli e Galli contestano la tesi per cui un programma di investimenti pubblici sarebbe in grado di migliorare in modo permanente le finanze pubbliche tramite il suo effetto sul Pil. Che la proposta di La Malfa sia opinabile non è sorprendente. È circa un secolo che gli economisti si accapigliano riguardo all’impatto della spesa pubblica sull’attività economica, e di converso sull’effetto che la crescita economica ha (principalmente tramite le entrate fiscali) sul deficit. Quanto dell’aumento dell’investimento pubblico sosterrebbe l’attività economica in Italia, e quanto finirebbe per utilizzare beni importati, spingendo il Pil dei Paesi partner? E come essere sicuri che l’investimento pubblico riesca a far aumentare in modo permanente il Pil (la cosiddetta crescita potenziale), ponendo quindi le basi per una sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico? Infine, ma non in ordine di importanza, come assicurarsi che gli investimenti siano indirizzati in progetti che abbiano un rendimento economico o sociale adeguato? In questi giorni di partenze per le vacanze estive, la Salerno-Reggio Calabria ci ricorda come non sempre la quantità e la qualità dell’investimento (pubblico o privato) vadano di pari passo.
Insomma, è normale che ci sia disaccordo: non c’è nulla di meccanicistico negli effetti di un programma di investimenti pubblici. Il diavolo si nasconde nei dettagli. È quindi lodevole che ci si interroghi sui progetti che saranno messi in cantiere nei prossimi mesi, e che il dibattito pubblico contribuisca a definire i progetti del governo e (sperabilmente) a massimizzarne l’impatto economico e sociale.
Tuttavia, questa non è la strada presa da Cottarelli e Galli. Essi decidono invece di fare astrazione dagli aspetti economici dell’investimento pubblico nella congiuntura attuale, e adottano un approccio puramente contabile. La spesa in deficit, indipendentemente dal contesto in cui è effettuata, non può che far aumentare il rapporto tra debito e Pil. Questo perché agirebbe una tantum sul reddito (alterandone il livello ma non il tasso di crescita), mentre avrebbe un effetto ripetuto nel tempo sullo stock di debito. Nei giorni passati c’è stato un dibattito interessante, in Rete, sulle ipotesi implicite in tale affermazione. Sembrerebbe che secondo l’interpretazione di Cottarelli e Galli il deficit aumenterebbe in modo permanente, mentre i suoi effetti sul Pil sarebbero solo temporanei. Assumendo che non ci siano effetti sul tasso di crescita dell’economia, essi di fatto escludono per ipotesi che l’aumento del denominatore contribuisca a rendere sostenibili le finanze pubbliche. Cottarelli e Galli insomma sembrano escludere per ipotesi quello che pretendono di voler dimostrare: ricordiamo che l’abbondante letteratura sulla sostenibilità del debito pubblico è centrata sulla differenza tra tasso di interesse e tasso di crescita (il debito tende ad aumentare se la differenza è positiva, e a diminuire se è negativa); se quest’ultimo è assunto invariante rispetto al deficit, è impossibile quasi per definizione che il rapporto tra debito e Pil diminuisca in seguito ad un aumento dell’investimento pubblico.
Ma questi sono dettagli. Ipotesi differenti porterebbero probabilmente (come è naturale e giusto che sia) a sfumare le affermazioni di Cottarelli e Galli, o addirittura a raggiungere conclusioni opposte. Quello che colpisce, invece, è la riproposizione dell’idea per cui qualunque intervento pubblico in economia è inutile, se non dannoso, e il corollario per cui non si può nemmeno cominciare ad affrontare la moltitudine di problemi del Paese se non si abbatte in priorità il debito pubblico. Cottarelli e Galli (che in questo purtroppo sono in buona compagnia) sembrano far fatica a integrare nel loro schema analitico il dibattito sulla politica macroeconomica che, almeno in ambienti anglosassoni, è stato innescato dalla crisi. Mentre negli Stati Uniti si discute infine di come ridefinire la politica macroeconomica dopo la Grande Recessione, sul legame tra ciclo e crescita potenziale, sulla pertinenza o meno delle ipotesi sulla cosiddetta stagnazione secolare, in Europa e (soprattutto) in Italia si continua, come se nulla fosse successo, a proporre la riduzione del debito pubblico come salvifica priorità di politica economica.
Insomma, Cottarelli e Galli avrebbero potuto evocare la sterminata letteratura sul valore dei moltiplicatori, e sulle elasticità di spesa pubblica ed entrate tributarie rispetto al Pil. Questa letteratura non giunge a “verità incontestabili”, perché, come è normale in economia, l’effetto di una qualunque politica economica dipende da fattori di domanda e di offerta, dalla posizione ciclica come dalla crescita potenziale; in una parola, dipende dal contesto in cui la politica in questione viene messa in opera. Avrebbero insomma potuto (e dovuto) accendere i riflettori sulla complessità di un esercizio come quello proposto da La Malfa, in un’economia che soffre di problemi strutturali e che, euro o non euro, evolve in un contesto di forte interdipendenza. Hanno invece scelto di presentare il loro punto di vista come un’evidenza aritmetico-contabile, che a sua volta semplifica e, riposando su ipotesi non esplicite e di cui è lecito dubitare, finisce per essere molto poco convincente.
È questo il problema principale dei difensori dello status quo. Continuano a proporre una visione dell’economia semplicistica, quasi meccanica (l’uso del termine "aritmetico" da parte di Cottarelli e Galli è in questo senso rivelatore), che in quanto tale tende a essere universalistica. Ci fu proposta l’austerità come unica possibilità ai tempi del governo Monti, perché l’economia era in crisi. E ci viene proposta oggi come unica possibilità perché l’economia si riprende, e sembra quasi che l’unica zavorra per un paese in cui i colli di bottiglia sono centinaia (pubblici e privati) sia costituita dal debito pubblico. There is No Alternative, insomma.
Questo arroccamento, questa coazione a ripetere, ha conseguenze che vanno ben al di là del nostro Paese. Recentemente il senatore Monti ha difeso i programmi di aggiustamento imposti alla Grecia dalla Troika (Commissione, Bce e Fmi), sostenendo che la ripresa dell’economia costituisce una prova irrefutabile della bontà delle ricette applicate. Il senatore Monti sembra però dimenticare che tutti gli indicatori strutturali per l’economia greca sono peggiori rispetto a quelli pre-crisi. L’accumulazione di capitale ristagna dopo il crollo vertiginoso del 2008-2012; innovazione, brevetti, accumulazione di capitale umano sono al palo. Il World Economic Forum certifica una perdita significativa di competitività rispetto a economie simili, e il Fondo monetario attribuisce il miglioramento dei conti con l’estero alla recessione prolungata che ha causato un crollo dei consumi e delle importazioni. Senza dimenticare che il livello del Pil è ancora lontanissimo dai livelli pre-crisi, e ai ritmi attuali si ritornerà al livello del 2008 non prima del 2025. Insomma, le politiche che ci furono vendute all’epoca come una medicina amara ma necessaria per un recupero della competitività perduta hanno invece peggiorato la situazione strutturale del Paese; la medicina ha debilitato il paziente, lasciandolo più esposto di prima a futuri shock negativi. Eppure, l’ossessione per i conti pubblici spinge alcuni a considerare l’esperimento greco un successo. È ironico che quegli stessi che criticano i tentativi di rendere le finanze pubbliche sostenibili spingendo sulla crescita (sul denominatore del rapporto tra debito e Pil), dimenticano che otto anni di austerità in Grecia non hanno stabilizzato il debito greco proprio perché hanno causato un crollo del Pil.
Fin tanto che la difesa del progetto europeo continua a farsi in un contesto analitico così angusto, arroccandosi sulla difesa di politiche sbagliate (e che alcuni, tra cui chi scrive, avevano già segnalato all’epoca come frutto dell’adesione fideistica ad una teoria inadatta a spiegare i meccanismi all’opera dietro alla Grande Recessione), hanno buon gioco i sovranisti di ogni bordo a puntare il dito sugli effetti disastrosi delle politiche di questi anni, e a pretendere che queste siano intrinsicamente connaturate al progetto europeo (e specificatamente alla moneta unica).
Difendere lo status quo, insomma, è il miglior assist a chi sostiene che il ritorno alla sovranità nazionale sia l’unico modo per cambiare la politica economica europea. Tutti gli appuntamenti elettorali degli ultimi anni, dentro e fuori dall’Eurozona, stanno lì a testimoniarlo. Chi tiene al progetto europeo dovrebbe iniziare dal riconoscere gli errori del passato, e aggiornare i propri schemi analitici per evitare di ripeterli, consegnando di fatto le chiavi della politica economica a un sovranismo che non tarderebbe (nel caso italiano occorre usare il futuro, “tarderà”) a mostrarsi altrettanto inadeguato per governare la complessità del mondo di oggi.
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