Un voto contundente. Il 1° luglio 2018 Andrés Manuel López Obrador, noto anche come Amlo o El Peje, ha vinto nettamente le elezioni, sbaragliando la concorrenza. Anche se bisogna formalmente attendere la certificazione del Tribunale elettorale federale, l’Instituto nacional electoral ha chiuso i suoi conteggicon dei risultati sorprendenti. Il leader della coalizione Juntos haremos historia (Jhh) – che comprende il Movimiento de regeneración nacional (Morena), formazione nata nel 2012 da una scissione del Partido de la revolucion democrática (Prd), di centro-sinistra, oltre ai piccoli Partido del trabajo, di origini maoiste, e i conservatori (in buona parte evangelici) di Encuentro social (Pes) – ha infatti ottenuto più di 30,1 milioni di voti (53,19% del totale), contro i 12,6 (22,27%) del giovane imprenditore Ricardo Anaya – leader del Partido de acción nacional (Pan) di centro-destra, sostenuto anche da Prd e Movimiento ciudadano (Mc) – e i 9,3 di José Antonio Meade (16,41%) dello storico Partido de la revolución institucional (Pri) appoggiato dal Partido verde (Pve) e altre formazioni minori. Minimo è stato, infine, il ruolo dei candidati indipendenti (novità del voto 2018): l’ex governatore del Nuevo León “el Bronco” Rodríguez si è fermato al 5,23%, mentre Margarita Zavala, sposa dell’ex presidente (2006-2012) Felipe Calderón (Pan), il promotore della “guerra al narco”, si è ritirata prima del voto e la leader della Coordinadora indigena, Marichui (María de Jesús Patricio), non era nemmeno riuscita a raccogliere le firme utili per correre.
La partecipazione è stata positiva con il 63,42% degli aventi diritto e il 97,22% di voti validi. Le violenze che hanno accompagnato il processo elettorale in alcune aree calde del Paese, provocando da settembre 133 vittime (tra cui numerose candidate locali donne), con record negativo nel Guerrero (26), devastato dal narcotraffico, si sono stemperate all’apertura delle urne. Il processo elettorale è stato definito democraticamente efficace da parte degli osservatori internazionali e degli sconfitti che hanno prontamente riconosciuto l’esito delle urne.
Se la vittoria di Amlo appariva scontata ormai da mesi, da quando si era messa davvero in moto la complessa macchina elettorale, ancor più sorprendente appare il successo di Morena al voto per il Congresso federale. La coalizione di Amlo ha infatti ottenuto una netta maggioranza assoluta in entrambi i rami, conquistando 53 seggi al Senato, contro i 25 di Pan-Prd-Mc e 13 di Pri e Pve, e 210 alla Camera, dove Morena è passata da 47 a 193, mentre il Pan è sceso da 108 a 79 e il Pri è crollato da 203 a 42. Jhh si è imposta in tutti e 32 gli Stati della federazione, con l’eccezione (per il Senato) del Guanajuato, feudo dell’ex presidente (2000-2006) Vicente Fox (Pan), e (per la Camera) del Nuevo León (dove si è imposto Mc, forte a Monterrey, la vecchia Chicago messicana) e Yucatan (andata al Pan). Morena ha vinto nettamente anche a Città del Messico (ex Distrito federal), con l’ex consulente del Programma Onu per lo sviluppo Claudia Sheinbaum che ha sbaragliato una candidata forte come Alajandra Barrales del Prd (che governava la città dal 1997, dal 2000 al 2005 proprio con Amlo). Nonostante la difficoltà di rompere le radicate reti di potere periferiche, la coalizione si è imposta anche nel governo di importanti Stati centro-meridionali (con forte presenza indigena) quali Veracruz (Cuitláhuac García), Chiapas (Rutilio Escandón), Tabasco (Adán López) e Morelos (con l’ex calciatore della nazionale Cuahutémoc Blanco), mentre il Pan ha conservato Guanajuato (Diego Sinhué), Puebla (Martha Alonso) e Yucatan (Mauricio Vila); Mc si è imposto in Jalisco con Enrique Alfaro. Infine il Pri è crollato anche in una miriade di municipi, alcaldías e ayuntamentos (sistemi amministrativi di governo comunitario), in un voto che presentava su tutto il territorio nazionale ben 17.687 candidati.
Il sistema politico messicano, figlio della rivoluzione del 1910 e della Costituzione del 1917 (super-emendata ma ancora centrale per comprendere la struttura federale del Paese), prevede, oltre al turno unico e al principio della “no re-elección”, che passino cinque mesi tra il voto e l’insediamento del “presidente electo” che avverrà il 1° dicembre 2018. Questo lasso di tempo serve teoricamente per verificare le procedure, costruire la squadra di governo e preparare un ricambio nei vari rami di una gigantesca macchina statale, a livello federale e nelle entità interessate, che nonostante privatizzazioni e riforme introdotte nel corso dell’ultimo trentennio, resta quantomeno imponente.
Si tratta di un passaggio delicato che, ancor più dalla fine dell’egemonia del Pri e dall’avvio della transizione democratica del 2000, produce a tratti rotture, anche dirompenti, e cambiamenti nei gangli strategici della struttura burocratica. Nel caso di questa elezione la squadra di governo (16 ministri, otto uomini e otto donne) sembra di fatto già quasi pronta: al gabinetto itinerante annunciato da Amlo in campagna elettorale – che vede tra gli altri l’ex magistrata della Corte suprema Olga Sánchez Cordero agli Interni, l’agronoma María Luisa Albores allo Sviluppo sociale, e la docente del Colegio de México Graciela Márquez Colín all’Economia – si sono già aggiunte pedine strategiche di peso politico, quali l’ex sindaco di Città del Messico Marcelo Ebrad (affiancato da Héctor Vasconcelos, figlio di José padre del primo progetto culturale postrivoluzionario), indicato come responsabile degli Esteri. I primi passi di Amlo sembrano essere andati nella direzione della costruzione di un governo di riconciliazione nazionale, più volte evocato in campagna elettorale, come emerge dagli incontri con opposizioni, imprenditori, rappresentanti di camere di commercio, sindacati e attori internazionali (è stato già annunciato un imminente incontro tra Amlo e il segretario di Stato statunitense, Mike Pompeo).
Le sfide sul campo sono infatti molteplici e di enorme peso: dalla lotta alla criminalità (con un narcotraffico sempre più intrecciato a bande che controllano selvaggiamente i territori) e alla corruzione dilagante, alla costruzione di una crescita più equilibrata; dall’assetto internazionale del Paese, tra rinegoziazione del Nafta e diversificazione economica, al rilancio di Pemex dopo la parziale apertura del comparto energetico; dalla lotta alla povertà estrema, al consolidamento della classe media e delle diverse fucine culturali. Sfide impressionanti per un Paese dall’enorme potenziale (ancora nell’ultimo mese l’export automobilistico di questa open economy è cresciuto dell’8%) ma che porta il peso e le ferite di anni di violenze e di perdita del controllo di territori che hanno paradossalmente segnato la stagione della transizione democratica e del riformismo liberale a cavallo tra XX e XXI secolo, dopo la fine della “dictadura perfecta”. Quale sarà dunque il ruolo di Amlo in tutto ciò? E’ un ritorno al passato sotto nuove spoglie o l’aprirsi di una nuova fase (il voto giovanile lo ha premiato in modo netto)? Le prime mosse sembrano all’insegna del pragmatismo che ha caratterizzato i suoi anni di governo alla guida della capitale, un pragmatismo che punta a tenere insieme interessi economici e spinte popolari. Un pragmatismo difficile se proiettato sullo scenario enorme di un Paese composito di 130 milioni di persone, una open economy globalizzata ma fatta anche di territori periferici vivi, ancorché sofferenti. In questi giorni intellettuali e opinionisti si sono sbizzarriti: da chi evocava scenari chavisti, a chi riesumava lo spettro del populismo latinoamericano (Loris Zanatta su “La Lettura” dell’8 luglio), sempre uguale a sé stesso, distruttore della modernità liberale in nome di un pueblo povero e cristianamente idealizzato. I rischi ci sono, certo, ma il pueblo non è un monolite, i populismi sono articolati e dinamici, il cristianesimo (e ancor più il cattolicesimo) plurale, così come il Messico; inoltre i poveri ci sono davvero e sono tanti, e non necessariamente idioti, manipolabili e passivi.
Un progetto inclusivo ed equilibrato è ciò che potrebbe ridare linfa al Paese; non so se Amlo sarà in grado di farlo, ma uno sforzo nazionale che non si richiuda in orizzonti limitanti, che sappia ridurre razzismi ed elitismi e contenere populismi ridondanti potrebbe essere benvenuto, qualora gestito con criterio. Forse quella di Andrés Manuel López Obrador non è propriamente sinistra, ma sicuramente il Messico non è un attore secondario degli scenari globali (è lo stesso Fmi a dircelo) e l’irrisione provinciale continua ad essere un enorme difetto italiano e (in parte) occidentale.
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