Il dibattito sui temi di diritto del lavoro in Italia è spesso preda di un sensazionalismo che impedisce approfondimento e soluzioni ragionate.

Le misure introdotte dal “Decreto Dignità” si limitano a qualche modifica sulla disciplina del lavoro a termine, della somministrazione di lavoro e del licenziamento ingiustificato. Fa quindi sorridere che si sia scomodata la “dignità” del lavoro per questa manciata di norme, non solo da parte del legislatore ma anche degli editorialisti di prestigiosi quotidiani. Con buona pace del ministro Di Maio, le modifiche sono ben lungi dal rappresentare la “Waterloo del precariato”, qualunque cosa significhi, o dal riaffermare la dignità del lavoro in Italia.

Ammesso che questi obiettivi siano perseguibili per decreto, essi richiederebbero in primo luogo una riflessione complessiva su forme contrattuali spesso usate ben oltre le proprie funzioni giuridiche, come gli stage, le false partite Iva o i finti part-time che nascondono impieghi a tempo pieno retribuiti “con lo sconto”. Soprattutto, andrebbe avviata una riflessione su come favorire la creazione di lavoro dignitoso, non solo per remunerazione ma anche per contenuti, rappresentanza sindacale, sicurezza e stabilità.

Il “Decreto Dignità” introduce una “mini-stretta” sul contratto a termine: i contratti più lunghi di 12 mesi potranno essere stipulati solo per esigenze temporanee ed estranee al normale ciclo produttivo o per sostituire lavoratori assenti (ad esempio, per malattia). Il numero dei rinnovi possibili di uno stesso contratto scende da 5 a 4. Il contratto a termine, inoltre, costerà di più dal punto di vista contributivo.

Più significative le modifiche alla somministrazione di lavoro. Le agenzie di somministrazione saranno da ora sottoposte alla stessa disciplina dei normali datori di lavoro sulle ragioni che giustificano il ricorso al lavoro a termine. Assumere a termine per più di 12 mesi un lavoratore da somministrare a un’altra impresa o rinnovare il contratto allo stesso lavoratore richiederà l’esistenza di ragioni estranee al normale corso aziendale.

Un’altra modifica riguarda l’indennità in caso di licenziamento illegittimo. Per le imprese più grandi, la misura minima dell’indennità passa da 4 a 6 mesi, la massima passa da 24 a 36 mesi (con 18 anni di anzianità lavorativa).

Come anticipato, l’estirpazione del precariato è di là da venire. Anzi, alcune misure rischiano di incentivare quei rapporti più corti, sotto i 12 mesi, per i quali non sono richieste particolari ragioni aziendali. Il nuovo regime di limiti temporali e la stretta sui rinnovi ripetuti rischia inoltre di aumentare il turnover dei lavoratori temporanei: il singolo lavoratore verrà sostituito da un altro lavoratore a termine quando i limiti fissati dal legislatore si avvicineranno. Insomma, per una sorta di eterogenesi dei fini, le misure potrebbero comportare un aumento del precariato.

Ciò detto, nemmeno sembrano giustificate le reazioni sconcertate da parte imprenditoriale al decreto, quasi si trattasse di misure che determinino l’azzeramento della flessibilità del mercato del lavoro. Nel complesso, le regole sui contratti a tempo determinato e sul licenziamento rimangono molto più lasche di quanto non fossero prima del 2015. Al confronto, la famigerata riforma Fornero del 2012 restituiva una disciplina complessiva del mercato del lavoro ben più protettiva.

L’opposizione datoriale al decreto sembra motivata non da ragioni di merito ma da una posizione del tutto ideologica, da “indietro non si torna”, quasi come se, una volta imboccata la direzione della deregolamentazione del mercato del lavoro, qualsiasi aggiustamento divenisse un tabù.

Un simile atteggiamento, che non ha nulla a che vedere col merito delle riforme, non favorisce un dibattito costruttivo sulle regole del lavoro. Paventare legioni di avvocati pronti a muovere migliaia di cause immotivate sulla scorta delle nuove regole sul lavoro a termine fornisce una lettura del tutto caricaturale del fenomeno che trascura come, in passato, l’elevato contenzioso in materia fosse frutto di sistematiche prassi aziendali ai margini del lecito, soprattutto da parte di qualche impresa para-pubblica.

Allo stesso modo, partire dall’assunto intangibile, e non suffragato da alcun riscontro empirico, che qualsiasi disciplina protettiva comporti l’aumento della disoccupazione o del lavoro sommerso pone un’ipoteca enorme su ogni ipotesi di riforma. Se, una volta deregolamentato il mercato del lavoro, non è più possibile tornare indietro, qualsiasi nuovo intervento incontrerà resistenze e diffidenze sempre maggiori da parte di lavoratori e imprese, in un momento in cui la sperimentazione di nuove strade di tutela è invece essenziale.

Le modifiche del “Decreto Dignità” non sono la Waterloo del disagio economico né spostano la nostra disciplina del mercato del lavoro al di fuori di quella che è la prassi a livello europeo. Si può discuterne nel merito, evidenziando i rischi di eterogenesi dei fini e proponendo all’occorrenza interventi più coraggiosi, che – ad esempio – impongano limiti di ricorso al tempo determinato non tanto sul singolo lavoratore quanto sulla posizione lavorativa stessa, per limitare il turnover eterno su posizioni aziendali di fatto stabili. Non va dimenticato che, per quanto la normativa preveda la parità di trattamento coi lavoratori a tempo indeterminato, chi lavora a termine è spesso penalizzato sia dal punto di vista retributivo, che di accesso alla formazione e alla rappresentanza sindacale oltre che nelle condizioni di sicurezza sul lavoro, per non citare le questioni previdenziali o di accesso al credito.

Insomma, il "Decreto Dignità" non affronta minimamente il problema centrale, e nemmeno lo fanno i commentatori abituali. Così, però, si trascura la parte più importante della questione, quella legata alla dignità del lavoro, tema che non dovrebbe ammettere partigianerie e che rimane del tutto oscurato dal sensazionalismo ideologico del confronto.

 

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