Nel numero 2/2018 del «Mulino» abbiamo pubblicato un saggio di Carlo Trigilia che analizza la crisi di rappresentanza del Partito democratico emersa in tutta la sua gravità dai risultatati delle elezioni del 4 marzo. L’articolo ha avuto un’ampia circolazione e ha suscitato diverse reazioni, in parte pubblicate nelle scorse settimane sul sito della nostra rivista. Anche gli osservatori più benevoli nei confronti dell’esperienza di Matteo Renzi come segretario del partito non hanno potuto fare a meno di riconoscere che una sconfitta così dura non può essere derubricata, come alcuni dirigenti e simpatizzanti hanno tentato di fare, prendendosela con elettori ingenui o irrazionaliche hanno prestato fede alle promesse incoerenti a avventate fatte dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega di Matteo Salvini nel corso della campagna elettorale.
C’è bisogno di un cambio di passo, che non riguardi soltanto la comunicazione, ma investa anche le idee e le proposte politiche del partito. L’abbandono del Pd da parte di una porzione così consistente del suo elettorato tradizionale – uno sgretolamento che stavolta ha investito anche aree geografiche di radicamento storico della sinistra – si spiega con l’incapacità del partito di entrare in sintonia con le preoccupazioni legittime di cittadini che vedono il proprio futuro pregiudicato dagli effetti della crisi economica più dura che il nostro Paese si sia trovato ad affrontare dal secondo dopoguerra.
A essere spaventati dal futuro non sono soltanto gli indigenti, che pure sono aumentati negli ultimi anni, ma anche il ceto medio. Chi vede le basi del proprio benessere erose da un modello sociale neoliberale che privilegia sistematicamente una parte sempre più ristretta della società a discapito di coloro che vivono soprattutto del proprio reddito da lavoro dipendente. A perdere la fiducia sono sia i giovani che inseguono il sogno legittimo di un’indipendenza economica, lottando con un presente di “lavoretti” (quelli che David Graeber chiama, appropriatamente, “bullshit jobs”), sia le persone mature che sono costrette a intaccare i propri risparmi per garantire a sé stesse e ai propri figli servizi e opportunità che la mano pubblica oppressa dal peso del debito e dall’imperativo della riduzione della spesa non riesce più a garantire. Tentare di addolcire la pillola della flessibilità, ingurgitata a forza da persone che, se sono fortunate, riescono ad accedere soltanto a lavori precari, malamente retribuiti, descrivendole come se fossero “imprenditori di sé stessi”, non ha fatto che esacerbare la scontentezza di chi sta smarrendo la speranza in un futuro migliore.
La delusione si è trasformata in rabbia, e si è espressa in modo veemente nelle urne, penalizzando chi racconta un mondo di startup e di eccellenze, che molti vedono, comprensibilmente, come fuori dalla propria portata. Parlare solo ai vincenti, in una società in cui, come mostrano le analisi di Thomas Piketty e Branko Milanovic, molti sono o temono di diventare perdenti sistematici, è stato un suicidio politico. Un fallimento che si spiega soltanto con l’incapacità di leggere il reale, di cogliere i segnali che sempre più forti venivano dal Paese. Invece di provare a comprendere le passioni che animavano lo scontento di una parte sempre più ampia della popolazione, la sinistra riformista ha messo in atto un meccanismo di rimozione, ammantando di moralità il proprio rifiuto. Come nella poesia di Yeats ha fatto della propria mancanza di passione un titolo di merito: “The best lack all conviction, while the worst, / are full of passionate intensity”.
In questa chiave si può leggere il ricorso ossessivo, durante la campagna elettorale, alla categoria del “populismo” per caratterizzare i propri avversari, e in particolare il M5S. Una mossa poco convincente sul piano concettuale, perché utilizza una categoria interpretativa come se fosse un interdetto morale, che rifiuta di riconoscere qualsiasi legittimità all’avversario, e perché l’etichetta è stata impiegata in modo chiaramente selettivo: non è forse Berlusconi, da Renzi considerato nella scorsa legislatura un interlocutore politico pienamente legittimo, colui che, da più di vent’anni, ha riportato il populismo al centro della politica italiana? Non c’è stato, nello stile comunicativo dello stesso Renzi, un ricorso frequente a luoghi comuni associati al populismo? Tenere insieme la “disintermediazione” e il rapporto diretto tra leader e popolo, più volte ribadito attraverso il mito delle primarie, con la difesa della competenza e del realismo era un’operazione spericolata. In effetti, ben presto il primo ingrediente di questo instabile cocktail è evaporato, e ciò che è rimasto era l’immagine di un partito sensibile soltanto al punto di vista della parte più prospera e avanzata della società.
Un sintomo di questa incapacità di fare breccia nel muro dell’insoddisfazione del ceto medio si coglie in alcuni slogan usati nel corso della campagna elettorale. Presentarsi come il “partito della scienza” contro i difensori del punto di vista della gente comune è una mossa rischiosa in un regime democratico, e non era difficile immaginare che potesse risultare controproducente. Ciò nonostante, il motivo della conoscenza contro l’ignoranza è stato centrale nella comunicazione del Pd. L’atteggiamento di fondo trasmesso agli elettori da questi messaggi esprime quello che Michael Walzer ha denunciato come un grave difetto di larga parte del liberalismo contemporaneo: “il suo fastidio e il suo disprezzo per la passione lo tengono ancorato a una più antica tradizione politica e filosofica, in cui pochi illuminati osservano con ansia il brulichio della massa irrazionale, e vagheggiano un’epoca in cui i suoi membri erano passivi, deferenti, politicamente apatici”.
[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 3/18, pp. 459-466, è acquistabile qui]
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