Nel dibattito pubblico recentemente suscitato dalla vicenda della nave Aquarius, il governo italiano ha detto e ripetuto che l’Italia è stata lasciata sola. Com’è noto, questa condizione è stata denunciata anche dagli esecutivi che hanno preceduto il governo Conte, con lo scopo di indurre l’Unione europea a farsi carico di una gestione comune dei flussi migratori provenienti dal Mediterraneo centrale. L’autosufficienza alla quale l’Italia è costretta non deriva soltanto dalla mancanza di un interesse comune europeo alla gestione degli sbarchi, ma anche dalla ritrosia degli Stati nazionali a concedere piena e incondizionata applicazione al trattato di Schengen: molti, forse troppi, sono diventati gli stati di eccezione instaurati da alcuni Paesi (la Francia, ad esempio) per ragioni di sicurezza nazionale, perché si possa parlare di una vera e propria libertà di circolazione entro uno spazio comune.
Allo stesso tempo, l’ascesa politica continentale di partiti ostili all’accoglienza dei migranti ha dato un ulteriore giro di vite, trasformando Schengen nella “vittima sacrificale” di nuovi indirizzi (vedi Ungheria) o di compromessi stipulati tra le forze politiche emergenti e quelle di ispirazione più aperta o tradizionale; prova ne sono gli attriti creatisi nel governo tedesco a causa della posizione assunta dal ministro dell’Interno Seehofer, pronto a chiudere le frontiere ai profughi già registrati in altri Paesi europei.
In questo clima di forti difficoltà e di debolezza per gli esecutivi nazionali, si terrà il prossimo Consiglio europeo del 28-29 giugno, nel quale sarà discussa la proposta franco-tedesca maturata nei giorni scorsi dal colloquio tra Merkel e Macron e che può essere sinteticamente espressa in due parole: potenziare Frontex.
Sappiamo di che cosa si tratta. Frontex è l’agenzia europea istituita nel 2004 (regolamento 2007/2004 Ue) con funzioni di analisi, coordinamento e supporto tecnico-operativo ai controlli di frontiera ed all’eventuale rimpatrio dei migranti compiuti dagli Stati membri per la difesa dei confini esterni dello spazio Schengen. Ciò allo scopo di bilanciare la libertà di circolazione interna con la garanzia di sicurezza esterna; in altri termini, di evitare che l’abbattimento dei controlli alle frontiere diventi fonte di una involontaria agevolazione della tratta di esseri umani o di altre forme di criminalità transfrontaliera.
La prospettiva di un’amministrazione europea “forte” delle migrazioni è, certo, un’idea fascinosa per i cultori della security first; ma, esattamente come l’assunto per cui l’Italia è stata lasciata sola, l’obiettivo di un potenziamento di Frontex non è una idea originale. Al contrario, essa è a mio parere la soluzione più facile, collaudata e, al tempo stesso, più ambigua che il Consiglio europeo possa escogitare in questo momento.
Non troppi anni fa, tutti lo ricordiamo, fu messa in campo la medesima strategia: il “potenziamento” dell’agenzia, nel quadro di più ampia risposta alla crisi migratoria determinata dagli attraversamenti marittimi dei confini dello spazio Schengen. Il regolamento Ue n. 1624 del 14 settembre 2016 è nato proprio dall’intento di rafforzare, con la creazione di una “guardia di frontiera e costiera europea” imperniata sul nuovo ruolo dell’agenzia Frontex, l’azione degli Stati membri di fronte a flussi, anche imprevisti o imprevedibili, tali da mettere a repentaglio la legalità dell’immigrazione e la sicurezza della libera circolazione delle persone nello spazio europeo. Il regolamento di cui si tratta si collega al precedente regolamento n. 656 del 15 maggio 2014, recante «norme per la sorveglianza delle frontiere marittime esterne» nel contesto della cooperazione operativa coordinata dall’agenzia Frontex, che include regole sulle modalità di soccorso e di sbarco dei migranti, dopo il soccorso, sia nelle acque costiere che in alto mare.
A voler essere precisi, pertanto, non è del tutto esatto che non esista una posizione europea condivisa sui flussi migratori mediterranei. È una posizione particolare, difensiva, senza regole di armonizzazione sui requisiti di ingresso e di soggiorno negli Stati membri, che tiene fermo solo il principio, ribadito a chiare lettere, di non respingimento e di protezione dei diritti fondamentali dei migranti. Ma, quanto meno, l’Unione europea non ha “ignorato” l’attraversamento di massa dei propri confini marittimi.
Il problema del “fallimento” di Frontex, malgrado il suo potenziamento, è legato a tre ordini di fattori. Il primo, almeno per chi si attendeva che Frontex operasse immediatamente nel Mediterraneo con la stessa disinvoltura di un’amministrazione nazionale, è la sussidiarietà dell’intervento della guardia costiera europea rispetto all’omologo apparato degli Stati membri. Soltanto nel caso in cui sia richiesta un’azione urgente per via di un difettoso controllo alle frontiere da parte di uno Stato, che rischi di compromettere lo spazio Schengen, Frontex può utilizzare direttamente le proprie squadre, altrimenti resta titolare di interventi congiunti, da essa coordinati, ma pur sempre congiunti: il che vuol dire calibrare il piano operativo e le misure di rinforzo prima di tutto sulle risorse di cui lo Stato membro ha la disponibilità. Su questo presupposto è concepito tutto il sistema di finanziamento e di provvista di mezzi e di personale di Frontex, che si avvale, in prima battuta, di personale e mezzi della guardia costiera dello Stato “ospitante” e/o di quella di altri Stati partecipanti; soltanto in seconda battuta, e dove occorra, di personale e mezzi propri.
Il secondo fattore, nell’ottica sopra menzionata, è la nazionalità delle regole per cui Frontex è stata costituita. Quest’ultima opera per il rispetto delle leggi in materia di requisiti di ingresso e di soggiorno emanate dagli ordinamenti nazionali, non dalle istituzioni europee. Parlamento e Consiglio europeo controllano l’agenzia, che a loro risponde, ma non hanno alcun potere (né hanno mai tentato di esercitarlo) sulla determinazione delle condizioni di ingresso nello spazio Schengen, che sono dettate esclusivamente dagli Stati. Frontex è insomma una pubblica amministrazione operante senza la guida di regole e principi espressivi di una politica europea dell’immigrazione. Da essa si può pretendere il rispetto del diritto internazionale, dei regolamenti che la istituiscono; ma non che dirima “tecnicamente” le enormi problematiche nascenti dalla mancanza di un disegno complessivo su come accogliere i migranti nell’acquis comunitario.
Il terzo ordine di considerazioni, che in parte si lega a quanto appena osservato, riguarda l’amplissimo margine di discrezionalità che i regolamenti europei del n. 656/2014 e 1624/2016 lasciano a Frontex per la determinazione delle modalità operative degli interventi di supporto agli Stati membri. Le operazioni Triton e Themis sono esempi, assai significativi, di questo delicato aspetto. La domanda di fondo, che la stessa vicenda Aquarius ha posto in maniera drammatica – dove far sbarcare i migranti? – trova oggi risposta nella “negoziazione” tra Frontex e i Paesi Ue interessati (l’Italia principalmente, fino a questo momento). A lungo, ma invano, si cercherebbe invece un riscontro nel diritto internazionale: nessun dubbio che la tanto evocata Convenzione di Amburgo del 1979 valga anche per l’Italia e, probabilmente, per la vicenda Aquarius, che ha d’altronde indignato proprio per ciò una parte dell’opinione pubblica. Tuttavia quella Convenzione è stata sottoscritta in un’epoca ben lontana dalle moderne migrazioni di massa; e la nozione di “luogo sicuro” nel quale trasferire i migranti salvati in mare non ha più le medesime coordinate interpretative. Frontex e gli Stati membri possono, quindi, concordare le modalità di salvataggio e i luoghi di sbarco. Il che, in assenza di una politica europea che faccia chiarezza sulle condizioni alle quali entrare e soggiornare nello spazio Schengen, non è un indice di salute dell’agenzia, ma un segno della tendenza dell’Europa politica a “scaricare” le proprie responsabilità sull’amministrazione (con una ovvia diminuzione di trasparenza delle decisioni assunte in questo modo). Senza forzare troppo il discorso, si potrebbe dire che anche Frontex , come l’Italia, è stata, in un certo senso, “lasciata sola”. Per non aggiungere che, come si è detto, la sospensione di Schengen e il ristabilimento dei controlli alle frontiere, da parte anche di un solo Stato membro, depotenzia la stessa ragion d’essere di una “guardia di frontiera e costiera europea”.
In conclusione, e malgrado tutto questo, ben venga lo slogan potenziare Frontex. A patto che ciò non significhi, semplicemente, dare a Frontex più potere amministrativo. Il Consiglio europeo del 28-29 giugno dovrebbe essere piuttosto l’occasione, per i membri della Ue, di trarre le logiche conseguenze dalle limitazioni di responsabilità già assunte con la sottoscrizione dell’accordo di Schengen, di porsi responsabilmente in una logica di politica comune. È possibile una più demarcata armonizzazione delle legislazioni nazionali in tema di ingresso, di soggiorno nello Stato, di accoglienza e di solidarietà verso i popoli che la chiedono? Questa, mi pare, è la domanda di fondo. Partire dalla polizia di frontiera, anziché da una politica dell’immigrazione, sarebbe invece un enorme passo indietro sulla strada dei valori democratici comuni. Ma con il clima che in questi giorni caratterizza il confronto tra Stati e con le lacerazioni interne di cui governi nazionali stanno soffrendo, non c’è da essere troppo ottimisti: è più probabile che il motto potenziare Frontex sia solo l’ultima boutade di governi nazionali per ora più intenti alla propria sopravvivenza che a perseguire il miglioramento del benessere collettivo.
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