Prima di affrontare qualsiasi ragionamento sul «populismo» è necessaria una premessa consistente nel liberare questo concetto da ogni pregiudizio ideologico e valutativo.Ideologico nel senso che la sua assimilazione a una visione politica di «destra» è fuorviante in quanto nella storia abbiamo avuto anche espressioni populiste guidate da orientamenti che potremmo definire «socialisti» o «progressisti»; valutativo nel senso che dobbiamo sottrargli ogni connotazione morale (che normalmente è di segno negativo), ogni tratto di biasimo e di condanna, evitando di cadere nella «trappola della demagogia antipopulista» (come definita da Tarchi) e riconducendo la nozione di populismo alla sua dimensione descrittiva.
In un'analisi del populismo di Grillo condotta ancora prima del suo straordinario successo nelle elezioni politiche del febbraio 2013 (Corbetta e Gualmini), avevo tratto, dalla letteratura di carattere storico-politologico, cinque elementi che storicamente hanno caratterizzato i movimenti populisti apparsi negli ultimi 100-150 anni nelle democrazie occidentali: a) l’appello diretto al «popolo» (puro) contrapposto a «istituzione» (corrotta) e la conseguente visione di un governo «del popolo, da parte del popolo e per il popolo» senza mediazioni istituzionali, in una prospettiva prossima alla democrazia diretta; b) l’individuazione di un «nemico del popolo», che varia a seconda dei populismi e che in genere è rappresentato dalle élite di tutti i generi, politiche (soprattutto), economiche, finanziarie, mass-mediatiche…; c) l’esistenza di un leader carismatico fondatore del movimento e sua guida indiscussa; d) l’utilizzo di uno stile di comunicazione aggressivo, caricaturale ed eccessivo, espressione della contrapposizione manichea fra «noi» e «loro»; e) la semplificazione ingenua della complessità della politica.
In quell’analisi arrivavo alla conclusione che il Movimento 5 Stelle era senza alcun dubbio «riconducibile all’alveo del populismo non solo per il suo fondamentale appellarsi alla dicotomia popolo-élite e la sua ostilità radicale verso la politica rappresentativa, ma anche per tutti i caratteri aggiuntivi (ed essenziali) che abbiamo elencato e analizzato». Di quest’avviso sono stati anche i più attenti studiosi dei populismi italiani. Mi limito a citare Marco Tarchi, che ha visto in Beppe Grillo «la quintessenza della mentalità populista»; Loris Zanatta, per il quale «il movimento di Beppe Grillo del populismo ha tutte le caratteristiche»; Marco Revelli, che ha affermato che «il suo [di Grillo] è davvero un neo-populismo in senso stretto, non c’è forse oggi un altro movimento o un’altra figura politica a cui s’attagli meglio, e integralmente, la definizione [di populismo]».
Ma la mia conclusione era relativa al Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Può essere estesa anche al nuovo Movimento guidato da Luigi Di Maio? Perché il cambiamento – che ha visto come passaggi cruciali la candidatura di Di Maio a premier alla kermesse di Rimini del settembre 2017, la successiva emanazione del nuovo statuto con la figura del «capo politico», il «passo di lato» (che sembra sempre più definitivo) di Beppe Grillo – è stato veramente profondo (oltre che repentino).
Tutti i cinque punti sopra enunciati sono assai più difficilmente applicabili al Movimento 5 Stelle che ha vinto le elezioni del 4 marzo. Il messaggio politico di Grillo era aggressivo e distruttivo, lui stesso si presentava come il fustigatore ribelle, era la personificazione dell’ira protestataria. Il messaggio di Di Maio è pacato e costruttivo. Si presenta non come uomo che recrimina sul passato, ma come uno che propone per il futuro. Toni governativi contro toni anarcoidi. Ma non si tratta solo di toni comunicativi diversi.
Se analizziamo uno per uno i cinque elementi distintivi del populismo che abbiamo sopra enunciato, troviamo che, mentre erano perfettamente attinenti al Movimento fondato da Grillo, sono oggi con assai con maggiore difficoltà applicabili al Movimento di Di Maio. Il primo carattere, il più evidente di tutti e dal quale nasce il termine stesso di «populismo», è rappresentato dall’appello diretto al popolo contrapposto all’istituzione. In questo caso l’attacco populista è rivolto prima di tutto alle istituzioni della rappresentanza politica – in particolare ai partiti – accusate di averne espropriato la sovranità. La legittimità dell’intero sistema politico viene contestata, i membri eletti sono accusati di tradimento della volontà popolare, e alla concezione liberale di democrazia rappresentativa si contrappone una non meglio precisata democrazia diretta. Nel massaggio originale e fondativo di Beppe Grillo tutto ciò era ben presente. Quando enunciava la «legge della Rete» per la quale «ognuno vale uno», quando affermava contestualmente l’inutilità di ogni forma di rappresentanza politica («i partiti sono morti», nel «nuovo mondo» di essi non ci sarà più bisogno), quando sosteneva che «dobbiamo abituarci a pensare al politico come a un nostro dipendente», Beppe Grillo si poneva naturalmente nella linea dell’appello al popolo-sovrano. E di conseguenza – vengo al secondo elemento caratterizzante il populismo – il nemico del popolo era rappresentato dalle élite dominanti. In primis dalla «casta» politica, ma anche da tutte le altre forme di potere istituzionalizzato (in campo economico, finanziario, nel mondo dell’informazione, basti pensare ai suoi violenti attacchi contro i giornalisti e al divieto originario ai militanti di partecipare a talk show televisivi).
Inutile dire che molta acqua è passata sotto i ponti da allora e che con Di Maio ci troviamo su un pianeta completamente diverso per quanto riguarda i primi due elementi dell’universo politico-culturale populista: il popolo e il suo nemico. Ma anche sul terzo elemento caratterizzante i populismi («l’esistenza di un leader carismatico fondatore del movimento e sua guida indiscussa»), la prospettiva che il Movimento 5 Stelle oggi ci offre è radicalmente cambiata. Chi ha votato M5S nel 2013, cinque anni fa, non ha votato un partito, ma ha votato Beppe Grillo. Senza l’azione politica del comico genovese il Movimento non sarebbe mai nato. Sulle differenze fra Grillo e Di Maio dal punto di vista della leadership e del carisma è inutile soffermarsi. Di Maio può anche essere un ottimo leader organizzativo-burocratico, ma non ha e non avrà mai le caratteristiche carismatiche di Grillo e dei leader che storicamente hanno guidato tutti i movimenti populisti.
Considerazioni simili possiamo fare sugli ultimi due punti che caratterizzano i movimenti populisti. Lo «stile di comunicazione aggressivo, caricaturale ed eccessivo, espressione della contrapposizione manichea fra noi e loro», tipico dei leader populisti e dell’espressività di Beppe Grillo, non appartiene per nulla al registro comunicativo di Luigi Di Maio.
Infine «l’iper-semplificazione della complessità della politica», che si ritrova in tutti i populismi e che nasce dalla convinzione che esistano soluzioni rapide e semplici contro i bizantinismi della politica, ancora una volta non appartiene al messaggio di Di Maio, il quale sembra anzi talvolta mostrare una sorta di complesso di inferiorità verso gli specialismi e l’istruzione universitaria e ha ripetutamente definito «super competenti» le personalità proposte come ministri del suo ipotetico governo (mentre Grillo irrideva col suo stile istrionico agli esperti in cerca di visibilità e – ai suoi tempi – «la legge» della Rete era che «uno vale uno»).
La mia conclusione è che il nuovo Movimento 5 Stelle di Luigi Di Maio è un qualcosa di profondamente diverso dal Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e non può più essere definito «populista». Ciò sia al seguito dell’uscita di scena di Beppe Grillo, sia per l’inevitabile processo di istituzionalizzazione che il Movimento sta intraprendendo per trasformarsi da movimento in partito. Si tratta di una transizione inevitabile ma, come tutte le transizioni, assai difficile. La prova governativa, che oggi pare obbligata, completerà questo processo ed allora i conti con la realtà dovranno essere fatti fino in fondo. E questo complicherà non poco il rapporto con la base elettorale (la storia è piena di lezioni impartite ai movimenti populisti una volta che sono saliti al potere).
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