Accantoniamo per un attimo i dettagli e cerchiamo di capire quale sia la logica che ispira una proposta di riforma del sistema fiscale incentrato sulla cosiddetta «flat tax» (sulla aliquota unica o piatta, per dirla in italiano).
Il punto di partenza è semplice: superata la fase peggiore della crisi è opportuno riportare la pressione fiscale e il peso della spesa pubblica lì dov’erano all’inizio del secolo. Nulla di particolarmente drammatico: si tratta di avvicinarci alle medie europee. Quel che è importante è che riduzione delle imposte e riduzione della spesa procedano di pari passo. La situazione delle nostre finanze pubbliche è tutt’altro che rosea e non ci possiamo permettere un solo euro di debito in più. Né possiamo sperare in recuperi di gettito che forse ci saranno ma su cui non si può contare prima che si verifichino.
Se si condivide questo punto di partenza (e si può anche non farlo ma allora la flat tax non c’entra), si può passare a disegnare una riforma dell’intero dare e avere fra lo Stato e le famiglie italiane. Non solo una riforma fiscale ma anche una riforma dell’assistenza. Tenendo a mente un principio che solo la nostra pigrizia mentale ci impedisce di accettare: la vera redistribuzione non si fa (solo) dal lato delle imposte ma anche (se non soprattutto) dal lato della spesa. Istruzione, sanità e assistenza sono esempi che dovrebbero parlare da soli. Quindi una assistenza che non vada – come oggi accade – in parte anche alle famiglie benestanti. Quindi una sanità e una istruzione superiore che non vengano offerte gratuitamente o quasi anche ai nuclei familiari più abbienti ma che a questi ultimi chieda invece un contributo (il che, sia detto per inciso, non implica affatto escludere i più abbienti dalla fruizione di quei servizi).
Capire che la spesa pubblica può essere un importante canale di redistribuzione può consentirci di non caricare il lato delle imposte dell’intero peso delle politiche redistributive ma di accettare una imposta personale «moderatamente progressiva» come la flat tax (la definizione non è nostra ma di Luigi Einaudi, che di imposte se ne intendeva) e di concentrare la nostra attenzione su quelle proprietà del sistema fiscale che sono altrettanto se non ancora più rilevanti. La semplicità, che si ottiene (anche) riducendo il numero delle imposte e delle aliquote. La trasparenza, che si persegue sfrondando senza esitazioni le detrazioni, le deduzioni, i bonus, i trattamenti di favore che rendono il sistema attuale opaco e che spesso e volentieri sono il terreno di azione preferito delle lobby e il modo con cui annullare una progressività solo di facciata. L’efficienza, che richiede aliquote marginali (quelle che gravano sull’ultimo euro guadagnato) che non siano frutto di una mente collettiva malata come quelle odierne. L’equità, che richiede per esempio che sui redditi da capitale non gravino, come oggi, aliquote corrispondenti alle aliquote minime gravanti sui redditi da lavoro. La competitività che si ottiene, fra l’altro, spostando il peso della imposizione dalle imposte dirette alle imposte indirette.
In questo contesto la flat tax è solo un tassello, essenziale, di un disegno riformatore più ampio: è l’intero sistema di imposte e benefici disegnato negli anni Sessanta e Settanta che mostra infatti la corda e che va ricostruito su basi diverse. Ma, domandano, Massimo Baldini e Leonzio Rizzo, «se non esiste alcun Paese ricco con Welfare State sviluppato, un motivo ci sarà. L’Italia potrebbe essere l’eccezione?». Per la verità, il trend ormai trentennale di riduzione delle aliquote e degli scaglioni nei Paesi sviluppati (solo rallentato ma non interrotto dalla crisi) sembrerebbe indicare che le cose non stanno proprio così. Ma il punto è che l’Italia è già l’eccezione. Sono flat, infatti, l’imposta sugli utili delle società e l’imposta sostitutiva sui redditi da attività finanziarie. Sono flat le imposte sui redditi derivanti dalla locazione degli immobili. Sarà flat l’imposta sui redditi delle piccole imprese e lo è già quella – pensate un po’ – sugli utili e le plusvalenze derivanti da partecipazioni. È flat – tenetevi forte! – anche il regime fiscale applicabile alle solitamente cospicue remunerazioni dei gestori dei fondi di investimento. È flat – tanto, tanto flat – l’imposta sui redditi dei titolari di grandi patrimoni che intendono trasferire la loro residenza fiscale in Italia. E in tutti i casi con aliquote inferiori o prossime all’aliquota più bassa applicabile ai redditi da lavoro e da pensione. Non è flat – questo sì – la sola imposta sui redditi da lavoro o da pensione superiori al minimo esente ma comunque bassi o medi. Detto in altre parole, la progressività del sistema che tanti sembrano avere a cuore è un «privilegio» di pochi: i più indifesi.
Costruire una ipotesi di riforma sulle basi citate prima non è semplice ma, come dimostra la proposta dell’Istituto Bruno Leoni, è concretamente possibile. Con la prudenza e la gradualità necessarie alla luce delle precarie condizioni delle nostre finanze pubbliche. Senza mai perdere la visione di insieme e la coerenza che deve caratterizzare i singoli interventi. Il ministro dell’Economia ha detto recentemente che le proposte di flat tax gli ricordano la Fata turchina. È una metafora che non ci dispiace. La nostra bacchetta magica si chiama revisione della spesa e la nostra Fata turchina non è altro che la volontà politica. Il ministro dell’Economia forse non ha avuto modo di sperimentarlo, ma le due cose insieme possono fare miracoli.
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