Il punto principale della proposta elettorale di Lega e Forza Italia è la cosiddetta «flat tax», che sottoporrebbe il reddito del contribuente a un’aliquota unica. L’Irpef rimarrebbe progressiva grazie a una deduzione o a una detrazione. La stessa aliquota si applicherebbe anche alle altre principali imposte: Iva, Ires, redditi finanziari. È una proposta di trasformazione radicale del sistema fiscale che merita di essere valutata sotto diverse prospettive.
Prendiamola alla larga e cominciamo con la teoria economica, che a qualcosa dovrà pur servire anche nel mondo «reale».
Il passaggio alla flat tax ripropone il classico problema del trade-off tra equità ed efficienza, centrale nella ricerca dell’imposta ottimale. L’idea è che aliquote molto progressive aumentano l’equità della distribuzione del reddito ma riducono l’efficienza, cioè scoraggiano la crescita economica, e viceversa. L’imposta ottimale deve trovare il miglior compromesso tra gli obiettivi di efficienza e di equità.
È una scelta che dipende da molti fattori, tra cui i principali sono:
1) Le preferenze collettive sul grado di diseguaglianza accettabile.
2) La diseguaglianza nella distribuzione del reddito pre-imposta: quanto maggiore, tanto più redistributiva deve essere l’imposta.
3) L’elasticità dell’offerta di lavoro e del reddito imponibile rispetto all’aliquota marginale: quanto maggiori sono queste elasticità, tanto minore deve essere l’aliquota. Le elasticità non sono uguali per tutti i contribuenti: sono più alte per le donne e i redditi bassi.
4) La distribuzione dei contribuenti tra gruppi con diversi valori di questa elasticità: l’aliquota marginale deve essere bassa sulle classi di reddito molto affollate, per ridurre le distorsioni.
Visto che bisogna tenere conto di molte variabili, non è un caso che di solito l’imposta che viene ritenuta ottimale sia non lineare, cioè lontana dalla flat tax. Quest’ultima, cioè, sarebbe troppo semplice per poter tener conto di tutti i fattori in gioco, e solo in casi molto particolari coincide con l’«ottima» imposta.
Le due dimensioni chiave su cui valutare la flat tax sono quindi efficienza ed equità.
A proposito dell’efficienza, per i suoi sostenitori la bassa aliquota spingerebbe i contribuenti ad aumentare l’impegno lavorativo, diventato più redditizio, e a ridurre la propensione ad evadere, perché diminuirebbe il premio dell’evasione, che è appunto l’imposta non pagata. Vi sono buoni motivi per pensare che andrebbe proprio così, soprattutto in un paese ad alta tassazione e con economia sommersa molto diffusa. Le analisi disponibili dicono che una riduzione della pressione fiscale dovrebbe avere effetti positivi sulla crescita economica.
Il problema non sta nel segno dell’effetto, ma nella sua dimensione. È ragionevole che reazioni comportamentali vi saranno, con più crescita e meno infedeltà fiscale, ma non riusciranno a mantenere costante il gettito o addirittura ad aumentarlo. Laffer diceva che se le aliquote scendono il gettito sale, ma aveva torto: la base imponibile aumenta, ma si crea un buco nei conti pubblici. Non solo, ma siamo proprio sicuri che abbassare molto le aliquote sui redditi alti sia il modo migliore per aumentare l’efficienza del sistema? L’Irpef attuale ha aliquote troppo alte sui redditi medio-bassi, in particolare la terza aliquota (38%) inizia troppo in basso, a 28 mila euro. Da qui bisognerebbe partire per migliorare gli incentivi.
Il probabile guadagno di efficienza andrebbe poi a discapito dell’equità: la distribuzione del reddito post tax sarebbe sicuramente più disuguale. Se l’Irpef attuale riflette le preferenze collettive per una «giusta» distribuzione del reddito, allora solo un grande cambiamento di queste preferenze potrebbe giustificare la flat tax. Si è verificato negli anni recenti questo cambiamento, o c’è solo il desiderio di pagare meno imposte? Tutti dicono che la diseguaglianza sta aumentando, vogliamo davvero contribuire a questo aumento anche per via fiscale?
L’imposta rimarrebbe progressiva, ma molto meno di oggi: la percentuale di reddito prelevata dall’Irpef sarebbe ancora crescente col reddito, ma l’incidenza sul reddito dei ricchi sarebbe molto vicina a quella sulla classe media. Il grafico mostra l’incidenza dell’Irpef attuale e delle flat tax proposte da Lega e Forza Italia sul reddito delle famiglie, per decili di famiglie italiane. Ogni decile rappresenta il 10% delle famiglie, ordinate dalle più povere alle più ricche. Per il 50% meno benestante cambierebbe poco, mentre i guadagni sono evidenti per i redditi alti.
Per estendere il beneficio della riforma anche ai redditi bassi, si può prevedere un’imposta negativa, cioè un trasferimento, sul modello della proposta avanzata nel 1962 da Milton Friedman nel suo libro Capitalismo e libertà. Ma non possiamo pensare che metà delle famiglie italiane lo riceva. I veri sconfitti sarebbero comunque i redditi medi, troppo alti per ricevere un sussidio e troppo bassi per guadagnare tanto.
È possibile anche pensare a una flat tax con gettito che rimane costante, ma allora l’aliquota unica deve essere alta, almeno 30% (dipende dalla deduzione). Nessun partito però propone una flat tax di questo tipo.
Rimaniamo quindi con l’ipotesi più probabile: forte riduzione dell’aliquota verso una flat tax quasi proporzionale, con perdita di gettito. Considerando anche un aumento dei trasferimenti ai poveri e il recupero di efficienza e di evasione, il passaggio al modello flat tax/imposta negativa costerebbe comunque decine di miliardi. Il limite del 3% del deficit sarebbe superato, con conseguenze a livello europeo. Ma soprattutto mancherebbero soldi per finanziare la spesa pubblica. Basterebbero i tagli alla spesa improduttiva? Sicuramente la spesa improduttiva c’è, ma la spesa primaria italiana non è alta. Ammettiamo che si possano recuperare una decina di miliardi di spesa «improduttiva», e sarebbe già un miracolo. Resterebbe comunque un buco notevole che metterebbe in difficoltà la spesa. Il rischio per la tenuta di un sistema di Welfare universalistico sarebbe concreto, proprio quando vi sono forti pressioni per un aumento della spesa sociale, dovuti all’invecchiamento e all’aumento della povertà. La spesa sociale è alta in tutte le economie mature e la sua domanda aumenta col reddito, soprattutto per sanità, long term care e istruzione. In alcuni paesi questa spesa sociale è finanziata in gran parte dal settore pubblico, in altri, si pensi agli Stati Uniti, anche dal privato, ma il livello complessivo della spesa sociale (pubblica + privata) è simile. Quindi un calo del finanziamento pubblico potrebbe comportare la parziale privatizzazione della spesa sociale, anche perché con meno entrate i servizi offerti dal pubblico perderebbero qualità e chi può si sposterebbe sul privato. La stessa proposta di flat tax dell’Istituto Bruno Leoni, onestamente, esclude dalla sanità pubblica le famiglie con reddito alto. Molti finirebbero per spendere in servizi privati quello che hanno risparmiato in imposte. Se non esiste alcun Paese ricco con Welfare state sviluppato e flat tax, un motivo ci sarà. L’Italia potrebbe essere l’eccezione?
Si potrebbe coprire il buco di bilancio operando su altre entrate, ad esempio con una patrimoniale sulle abitazioni o sulle eredità, oppure ampliando la base della nuova Irpef. Sono ipotesi interessanti perché sposterebbero il carico fiscale dal lavoro ai patrimoni, con vantaggi sulla crescita. Il loro appeal elettorale è in Italia però prossimo a zero.
Insomma, non dobbiamo credere a una flat tax «ingenua», che con aliquote molto basse si ripaga miracolosamente da sé, ma va riconosciuto che un effetto su Pil ed evasione ci sarebbe, assieme però a conseguenze pesanti sulle capacità di intervento pubblico. A qualcuno piacerà aver affamato la bestia, altri saranno preoccupati per la tenuta delle pensioni e di altre spese necessarie. Il problema, alla fine, è politico e soprattutto distributivo.
La flat tax pone esigenze reali: un carico fiscale eccessivo per molti contribuenti, un sistema tributario troppo complicato. Offre però una soluzione rigida e squilibrata, che agevola troppo i redditi alti e non abbastanza quelli medi. Sfida a pensare a una nuova Irpef, che aumenti l’efficienza del sistema economico senza mettere in crisi lo Stato sociale.
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