Alla proposta avanzata da Liberi e uguali di totale abolizione delle tasse universitarie conviene dedicare qualche considerazione di merito, indipendente dalle polemiche di stampo prettamente elettorale che subito si sono levate.
La proposta ha diversi meriti. Il primo è quello di porre all’attenzione la questione universitaria in Italia. E proprio l’accavallarsi di commenti, alcuni dei quali davvero bizzarri, mostra quanto sia utile discuterne. Negli ultimi dieci anni il sistema della formazione superiore è stato interessato da cambiamenti molto profondi, che ne hanno mutato significativamente diverse caratteristiche: mutuati da un’acritica, e un po’ provinciale, adesione al modello di università anglosassone, in particolare britannico, assai diverso da quelli prevalenti nell’Europa continentale. Dopo l’approvazione parlamentare della Legge Gelmini nel 2010, essi sono però frutto di un coacervo di norme ispirato da un piccolo gruppo di «riformatori» assai motivati, ma senza che l’opinione pubblica e lo stesso Parlamento (molte norme sono regolamentari o approvate dalle Camere con il voto di fiducia sulle leggi di bilancio) ne abbiamo discusso a fondo.
Il secondo è quello di indicare, tendenzialmente, l’obiettivo di una diffusione molto maggiore dell’istruzione superiore: assolutamente condivisibile, visto che l’Italia ha tassi di passaggio dalla scuola superiore all’università particolarmente bassi e una percentuale di laureati sulla popolazione giovane (30-34 anni) che la colloca assieme alla Romania agli ultimi posti fra i 28 Paesi dell’Unione; il nostro 26% resta lontanissimo dall’obiettivo comunitario, di Europa 2020, del 40% . Nel lungo periodo si tratta probabilmente della misura di politica economica più importante, anche per aumentare il tasso di crescita dell’intero Paese, oltre che per ridurne le forti, e tenaci, disuguaglianze interne. Obiettivo però solo apparentemente condiviso: in realtà avversato da quanti ritengono sia invece opportuno risparmiare sull’istruzione e avere un numero di laureati grosso modo corrispondente all’attuale domanda del sistema produttivo.
Ancora, indica come obiettivo un sistema universitario di taglio universalistico, il cui costo sia posto interamente a carico della fiscalità generale (come avviene per la scuola) e quindi sia sopportato prevalentemente dai contribuenti a maggior reddito e pressione fiscale. Non vi è motivo per cui questo debba destare scandalo: si tratta della scelta operata dai Paesi scandinavi, dalla Germania. È giustificata dalla circostanza che una maggiore istruzione superiore produce «esternalità»; non dà benefici solo agli individui ma alla società nel suo insieme. Si muove in direzione opposta a quanto avvenuto nel nostro Paese nell’ultimo decennio: le tasse universitarie sono cresciute di circa il 60% e si collocano ai livelli più alti dell’Europa continentale dopo l’Olanda. I contributi degli iscritti (circa 1,8 miliardi) hanno oggi in Italia, rispetto al totale delle entrate delle università, un peso molto maggiore rispetto alla stessa media dei Paesi dell’Ocse. Vi è una possibilità concreta che ciò abbia contribuito alla forte flessione delle immatricolazioni. Si è trattato di una scelta dovuta principalmente a motivi ideologici, sostenuta da quanti ritengono, al contrario, che l’università vada vista come un servizio a domanda individuale, i cui costi debbano essere esclusivamente sostenuti da chi ne beneficia direttamente.
La proposta dunque solleva diverse interessanti questioni politiche. Ma ha alcune controindicazioni. In primo luogo pare difficile, soprattutto a breve termine, passare da un modello con alta tassazione a un modello senza tassazione. Ciò implicherebbe la necessità di destinare immediatamente alle università il corrispondente, significativo, ammontare prelevandolo dalla fiscalità generale; circostanza complessa considerate le attuali condizioni della finanza pubblica. Nell’attuale situazione, il condivisibile obiettivo di accrescere gli accessi all’università in presenza di risorse scarse potrebbe essere poi prioritariamente perseguito attraverso un potenziamento del diritto allo studio – assai carente – su dimensioni molto più ridotte rispetto agli altri Paesi europei e con forti squilibri territoriali.
Nell’insieme, il sistema universitario italiano è straordinariamente sottofinanziato rispetto a quelli degli altri Paesi europei: tutti i dati dell’Education at a Glance dell’Ocse e della European University Association lo mostrano senza ombra di dubbio. Basti ricordare che i 7 miliardi di finanziamento pubblico italiano vanno comparati ai 30 della Germania e ai 24 della Francia (e ai 6 della Svezia, Paese assai più piccolo, e della Turchia, assai più povero). Appare opportuno destinare significative risorse alle università in misura aggiuntiva rispetto alle attuali disponibilità, piuttosto che in misura sostitutiva. Anche perché la recente introduzione di una «no tax area» per gli iscritti provenienti da famiglie meno abbienti (in termini di Isee), pur andando nella direzione giusta, è stata compensata nei bilanci delle università solo parzialmente e con risorse prese dallo stesso fondo di finanziamento delle università; e quindi rischia di provocare un ulteriore aumento della tassazione per le famiglie a reddito medio.
Per recuperare lo spirito della proposta e darne una prima attuazione, si potrebbe pensare a ridurre (ma non ad eliminare) la contribuzione delle famiglie, reintroducendo un tetto al peso della contribuzione rispetto al finanziamento pubblico (improvvidamente eliminato, nella sostanza, dall’allora ministro Profumo); a rendere progressiva la tassa per il diritto allo studio; a eliminare le norme (come quelle relative all’attribuzione dei «punti organico« necessari per le progressioni di carriera e il reclutamento dei nuovi docenti) che fanno sì che l’avere alte tasse, ovvero selezionare gli studenti più abbienti, sia diventato un «merito« da premiare per gli atenei.
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