Forse qualcuno, una volta ancora, ci ha creduto davvero, mentre francamente era prevedibile che l’arrivo al Senato del ddl sul reato di tortura non avrebbe rappresentato il passaggio decisivo per la sua approvazione. Ed era prevedibile per le stesse motivazioni che, a leggere tra le righe, spiegano perché il nostro Paese si trovi sulla questione della tortura in una palude istituzionale. C’è persino chi, non senza serie ragioni, arriva a chiedersi se sarebbe stato davvero auspicabile l’accoglimento del disegno di legge trasmesso dalla Camera, visto il tenore e la ratio di una norma che palesemente omette di muovere da un presupposto indispensabile: il riconoscimento effettivo e senza condizioni della condanna della tortura.
L’8 maggio scorso la discussione si è riaperta al Senato e subito si è arenata per la presentazione di due nuovi emendamenti, lo registriamo ormai solo per inciso, tesi a volatilizzare ogni residua possibilità di applicazione realistica della norma in esame. Da qui un rinvio alla settimana seguente. Alla ripresa della discussione, il 17 maggio scorso, il Senato ha approvato a larghissima maggioranza (195 favorevoli, 8 contrari e 34 astenuti) un disegno di legge che non stupisce, ma colpisce e preoccupa, perché il suo dettato rimane a dir poco annacquato, consapevolmente votato all’inefficacia e rivelatore delle surrettizie intenzioni del legislatore, imbarazzanti per una democrazia.
Con questo ddl che ora dovrà ritornare alla Camera, per giacervi a tempo verosimilmente indeterminato, siamo al cospetto di un compromesso o, forse sarebbe meglio dire, di una concessione, e pure fittizia, fortemente snaturante le esigenze di giustizia di uno Stato di diritto.
Emblematico l’incipit dell’art. 613 bis. Si tratta dell’articolo da integrare nel Codice e destinato a offrire la nozione di tortura sulla base della quale procedere a stabilire le condizioni di punibilità del delitto. È emblematico perché, a scanso di equivoci e di illusioni facili, enuncia immediatamente che le violenze alle quali ci si riferisce sono quelle commesse da «chiunque», non, in modo specifico, dal pubblico ufficiale. Come a risaltare, in negativo, è pure il paradigmatico art. 5, che stabilisce la totale invarianza degli oneri a carico dello Stato. Dunque, un pubblico ufficiale che pratichi torture vedrà la pena leggermente aumentata (nel disegno trasmesso dalla Camera si trattava sempre di semplice aggravante, ma gli anni aggiuntivi rispetto a quel testo sono stati adesso ulteriormente ridotti a due), mentre nient’altro seguirà alla sua condotta criminosa.
Non si poteva affermare con maggiore chiarezza la piena e incredibile mancanza di cognizione o, più probabilmente, il voluto insabbiamento della comprensione del crimine che si pretende di prevenire e punire. In altre parole, la provocatoria cecità nei confronti della natura della tortura e del suo tragico potere di devastazione che, a quanto pare, si vuole, o è indifferente, che faccia il suo corso nella vita, nella psiche, nella compromessa esistenza relazionale delle sue vittime.
Inquietanti sono a questo punto gli interrogativi che non possono non sorgere, pressanti e ineludibili: perché è così problematico per la Repubblica italiana, ormai uno dei pochissimi Stati europei a tutt’oggi inadempienti, assolvere ai propri doveri anche giuridici, contratti formalmente in via generale al tempo dell’entrata in vigore della Costituzione e in modo preciso e mirato con la ratifica, quasi trent’anni fa, della Convenzione contro la tortura? In ottemperanza a quali interessi tale resistenza continua a imporsi e ha la forza trasversale di spuntarla ogni volta? Perché non si vuole prendere sul serio il delitto di tortura? Perché non si sceglie di trasferire la definizione di tortura della Convenzione di New York nel nostro ordinamento? Come mai ci si arrocca senza possibili mediazioni nel non voler considerare quello di tortura un reato proprio (cioè specificamente riferibile ai pubblici ufficiali, come viene riconosciuto dall’Onu, ma anche dalla Spagna, dalla Germania o dal Regno Unito), bensì un reato comune?
Sono tante le ragioni, le buone ragioni, che portano a ritenere doveroso e urgente introdurre nel nostro Codice penale la possibilità di punire il crimine di tortura. Argomenti morali e motivazioni politiche che attengono alla stessa ragion d’essere della democrazia, solo strumentalmente o superficialmente riducibile all’esercizio del principio di maggioranza.
Ma ciò su cui vorremmo rapidamente richiamare l’attenzione sono ragioni basiche, meno elementari di quelle morali, ma sempre fondamentali e primarie, quelle di semplice grammatica giuridica. L’Italia, nel 1988, ha ratificato la Convenzione dell’Onu contro la tortura, dunque si è impegnata a rispettarne e ad applicarne il dettato. Al comma 2 dell’art. 4 della Convenzione si prevede da parte degli Stati che l’abbiano sottoscritta l’introduzione o comunque la presenza nel proprio ordinamento di norme in grado di punire atti di tortura in modo adeguato alla gravità del crimine. Alla lettera si prescrive che siano «tali trasgressioni passibili di pene adeguate che tengano conto della loro gravità».
Quanto si richiede in altri termini è che il Codice penale abbia modo di punire adeguatamente il crimine. Hanno ragione dunque i difensori nostrani della tortura nel dire che nel testo dell’Onu non si afferma che vi debba essere una norma specifica. Ma questa circostanza si ritorce contro l’obiettivo che essi perseguono. Infatti, rettamente inteso, l’art. 4 implica che neppure una norma specifica possa essere reputata sufficiente. Pretesa è la punizione adeguata, cioè commisurata, alla gravità della violenza esercitata. Una norma che introducesse il reato di tortura e che non consentisse un’onesta applicazione a tutti i casi sussumibili nella fattispecie di tortura - intesa in armonia con la definizione fornita dal primo articolo della Convenzione delle Nazioni Unite - ancora non affrancherebbe l’Italia dalla scandalosa lacuna legislativa alla quale pare affezionata.
Se questo è vero, continuare a persistere in tale stallo, e attestarsi su un disegno che mitigando, edulcorando, levigando sancisce la totale inadeguatezza della futura (?) norma, ribadisce la nostra assenza di volontà politica nell’onorare, insieme agli impegni istituzionalmente assunti a livello internazionale, quelli contratti con il riconoscimento del valore della dignità umana, tema morale che fece da sfondo ai lavori della costituente.
In materia di tortura la dignità viene dal nostro Paese violata due volte. Violata perché, come è evidente, si tortura e si intende continuare a farlo; violata perché si prosegue nel confermare pubblicamente che tale comportamento può essere considerato in fondo, magari sottovoce, accettabile. Smarrendo il senso così persino del principio di non contraddizione. Una democrazia che non vuole combattere la tortura e che quindi la assume come effetto secondario e trascurabile delle sue politiche securitarie cessa di essere una democrazia, qualora lo sia mai stata, o pregiudica a tempo indefinito l’opportunità di diventarlo.
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