La minacciata chiusura del Brennero da parte dell’Austria ci dice più sulla situazione a Vienna che sulla vera o presunta emergenza profughi in Europa. La grosse Koalition alla guida del governo ha creduto che adottare una politica di chiusura di fronte al problema immigrazione le avrebbe consentito di intercettare quei voti che sempre più in Europa guardano a destra. Il 35% ottenuto dal candidato liberale al primo turno delle elezioni presidenziali, però, non pare confermare i calcoli di popolari e socialdemocratici. Il rischio, ora, è che il governo ritenga che la batosta elettorale sia il frutto di un atteggiamento troppo morbido verso il fenomeno immigratorio, dando il via a un ulteriore irrigidimento di toni e comportamenti.

Di certo c’è che l’Austria non poteva non prevedere l’intensità delle reazioni al suo gesto. Il Brennero, infatti, non è un confine qualsiasi. Non è una delle tante frontiere che delimitano a est lo spazio europeo. È un confine collocato al centro del continente, non ai suoi margini, che segna il passaggio dall’Europa mediterranea al suo cuore centro-settentrionale. Ma è soprattutto un luogo carico di storia, in particolare di quella storia del Novecento che dovrebbe rammentarci in ogni momento le ceneri dalle quali è sorto il processo di unificazione europea.

Per molti politici e intellettuali italiani impegnati nella seconda metà dell’Ottocento nel progetto di completamente dell’unificazione nazionale, il Brennero era il limite al quale tendere. Secondo geografi, demografi, linguisti, era la natura a indicarci i limiti naturali dell’Italia, in primo luogo attraverso il disegno della catena alpina, ma anche per mezzo di clima e vegetazione che, a loro avviso, a sud del Brennero «parlavano» italiano. Tutto ciò nonostante a sud della agognata linea di confine abitasse un nucleo compatto di popolazione di lingua tedesca. Il Brennero emerse presto come luogo delle contraddizioni dello spirito risorgimentale italiano prima e irredentista poi, diviso tra l’assunto secondo il quale erano la lingua e la cultura a costituire i principi fondamentali del farsi nazione e le esigenze di carattere militare che richiedevano una linea di confine ben sigillabile da possibili attacchi esterni.

La vittoria nella Prima guerra mondiale contro il «nemico ereditario» austriaco consentì all’Italia la conquista di territori ben al di là dei confini linguistici, tra cui l’Alto Adige fino al passo del Brennero. Confine militarmente straordinario ma con il retrogusto amaro di un nuovo irredentismo, questa volta tedesco, in terra italiana. La questione sudtirolese avrebbe rappresentato una costante lungo tutto l’arco del secolo breve, dall’annessione del 1920 alla chiusura della vertenza internazionale tra Italia e Austria nel 1992. Dopo la breve e contraddittoria fase dei governi liberali, il fascismo avrebbe affrontato la questione ponendosi l’obiettivo della drastica snazionalizzazione dei tedeschi. Tentativo fallito, ma capace di avvelenare durevolmente i rapporti tra le popolazioni abitanti la regione, ma anche tra Roma e la provincia di confine e tra Italia ed Austria.

Il confine del Brennero è stato vissuto a lungo come un’autentica ferita dai tirolesi del nord e del sud, un vero e proprio strappo che aveva lacerato una comunità unita. Il paese di Brennero ne era esso stesso il simbolo. Comune formato da diverse frazioni poste da una parte e dall’altra dello spartiacque alpino, da un giorno all’altro si ritrovò per metà italiano e per metà austriaco. Ma il Brennero è stato anche il termometro dei rapporti tra i Paesi confinanti. Nella prima metà degli anni Trenta, ad esempio, quando l’Italia fascista e la Germania di Hitler erano ancora lontane dallo stringere alleanza, il Brennero visse un apice di militarizzazione. Mussolini fece fortificare per lunghi tratti la frontiera, dando corpo a quella che comunemente venne definita la «Linea non mi fido» e nel 1934 inviò alcune divisioni al Brennero per bloccare il rischio di un’annessione dell’Austria al Reich tedesco.

Una nuova militarizzazione del confine si ebbe trent’anni dopo, con la stagione del terrorismo sudtirolese. Gli attentatori godevano di importanti sostegni nel Tirolo del nord, da dove proveniva esplosivo, supporto tecnico e sostegno logistico. Al culmine della tensione i rapporti tra Italia e Austria vissero il loro minimo storico e il Brennero tornò a essere un muro in mezzo all’Europa. Severi i controlli alla barriera di confine e passaggio dei viaggiatori tra barricate, sacchi di sabbia e filo spinato.

La storia successiva è sembrata scorrere senza grossi intoppi verso la progressiva ricomposizione di quella frattura, come se la guarigione di quella cicatrice in mezzo all’Europa fosse inevitabile. I milioni di auto che con l’avvento del turismo di massa hanno attraversato il Brennero da nord a sud, verso le località turistiche dell’Adriatico, hanno via via cancellato quel tratto di matita sulla carta geografica. Per non parlare del processo d’integrazione, con l’Austria entrata a pieno titolo nell’Unione europea nel 1995 e le barriere di confine fisicamente smantellate tre anni dopo con il trattato di Schengen.

Se dietro quanto sta avvenendo non ci fosse una drammatica emergenza umanitaria e se l’esito della decisione austriaca non fosse imprevedibile, quanto accade oggi potrebbe quasi essere visto come uno stop salutare. Un campanello d’allarme che ci avverte che anche le vecchie ferite si possono riaprire e che vecchi muri possono essere ricostruiti. In altre parole, che la Storia non va mai solo in una direzione e che nulla può esser dato per scontato.