Lo Statuto dei lavoratori (1970) si proponeva finalità che autorizzano a qualificarlo come la legge delle due cittadinanze nei luoghi di lavoro: distinte ma reciprocamente collegate. Per realizzare la cittadinanza del sindacato, ne proteggeva i rappresentanti aziendali contro il potere dell’impresa; quanto ai lavoratori, ordinava all’impresa di adeguare il suo ordinamento interno e la sua stessa logica al principio per cui i lavoratori, per quanto legati da un rapporto di dipendenza, sono anzitutto i cittadini di una Repubblica democratica.
Lo Statuto ha segnato un nuovo inizio. Sennonché l’impegno di difenderlo da continui e crescenti attacchi ha distolto le energie e l’attenzione occorrenti per realizzarne compiutamente gli obiettivi. L’esperienza applicativa dello Statuto si è mossa infatti lungo direttrici divaricate che hanno valorizzato in modesta misura i diritti di cittadinanza dei lavoratori in quanto tali e hanno premiato l’autoreferenzialità del sindacato-organizzazione, consolidandone la cittadinanza in azienda non senza deformazioni. La più intollerabile è quella causata dalla cieca applicazione di una norma dello stesso Statuto, infelicemente riformulata da un improvvido referendum nel 1995, secondo cui può stare in fabbrica solo il sindacato firmatario del contratto collettivo che vi si applica.
Quando diviene irrilevante il fatto che un sindacato sia effettivamente rappresentativo e diventa invece risolutivo il fatto che non abbia firmato un contratto aziendale per dissensi nel merito, ciò vuol dire che la contrattazione collettiva si trasforma da fonte di legittimazione sostanziale del soggetto sindacale in un criterio di selezione dell’interlocutore preferito perché remissivo e accomodante. Vuol dire che la democrazia diventa un guscio vuoto dove i lavoratori possono essere espropriati del diritto alla rappresentanza sindacale di loro fiducia. Vuol dire che si è riaperta una vecchia ferita della stessa Costituzione.
In effetti, non abbiamo mai avuto l’agguerrita contrattazione collettiva di categoria che i padri costituenti consideravano il principale veicolo dell’istanza egualitaria: l’istanza che a parità di lavoro corrisponda parità di retribuzione e di diritti. A questo fine i padri costituenti volevano una legge ordinaria che attribuisse al contratto di categoria stipulato da sindacati giuridicamente riconosciuti dallo Stato una valenza para-legislativa, ossia l’efficacia vincolante per tutti e l’inderogabilità dei trattamenti economico-normativi pattuiti. Pensavano cioè che la natura dell’attività contrattuale del sindacato fosse privato-sociale e insieme pubblico-statuale. Aderivano infatti a una concezione bipolare del sindacato, quella che fa di lui un libero soggetto di diritto privato incaricato di rappresentare gli iscritti e, al tempo stesso, l’incaricato di una funzione di pubblica utilità: grosso modo, come i partiti politici.
Questo assetto dei rapporti tra Stato e sindacati non ha trovato attuazione in base a un calcolo di convenienza condiviso, sia pure per motivi differenti, dall’intero movimento sindacale. L’inattuazione costituzionale, però, era (per così dire) compensata da un surrogato che attenuava gli svantaggi procurati alla generalità dei lavoratori dalla lontananza della prassi sindacale dal modello prefigurato dall’Assemblea costituente: un tacito patto di unità d’azione tra le maggiori confederazioni. In epoca recente, il patto, che solidissimo non è mai stato, si è rotto; anche se l’accordo interconfederale del 28 giugno cerca di aggiustarlo con un cerotto d’incerta tenuta. In effetti, l’erosione dell’unità sindacale ha subito una violenta accelerazione durante i governi di Berlusconi e, sotto il consolato di Maurizio Sacconi, è arrivata alle estreme conseguenze con la complicità della ritrovata voglia di Cisl e Uil di fare una spregiudicata concorrenza alla Cgil. Infatti, è da Pomigliano (2010) in poi che si è prodotto il più lacerante sbrego del tessuto costituzionale.
Una ferita che credevamo cicatrizzata si è, dunque, riaperta. Ce n’è un’altra, però. Fresca fresca. Uno dei decreti anti-crisi del 2011, quello di ferragosto, pone le condizioni per sovvertire il sistema delle fonti di produzione delle regole del lavoro attribuendo alla contrattazione aziendale una potestà derogatoria di (quasi) tutti gli standard protettivi e un’efficacia vincolante nei confronti delle maestranze previa approvazione del negoziato attraverso consultazioni referendarie che, visto il contesto in cui si svolgerebbero, certamente non sarebbero un esercizio di democrazia.
C’è chi dice che non di ferita si tratterebbe, bensì di una superficiale escoriazione, e che in ogni caso sarebbe stata prontamente “sterilizzata”. Lo dicono i firmatari dell’accordo del 28 giugno, là dove giurano che mai e poi mai daranno applicazione all’art. 8 del decreto di ferragosto. Non ho motivi per dubitarne. Attenzione, però: non hanno detto che la norma va cancellata; punto e basta. Infatti, è stata lo scheletro nell’armadio che ha accompagnato (e, forse, condizionato, anche se nessuno ne parlava) la recente trattativa sulla riforma del mercato del lavoro. La nostra, quindi, è diventata una Repubblica che, pur essendo fondata sul lavoro, ammette la manomissione incontrollata dei suoi diritti. Come dire: a rischiare di essere “sterilizzata” è la stessa Costituzione.
Alle porte, infine, è la destrutturazione dell’art. 18. Il ddl governativo, infatti, prevede la mutilazione del principio della reintegrabilità del lavoratore ingiustamente licenziato. C’è chi dice che è un principio di civiltà. Ma, se lo si crede davvero, allora bisognerebbe negoziare per estenderlo a tutto il mondo del lavoro, e non per restringerne il campo di applicazione che lo Statuto circoscrive alle unità produttive con più di 15 dipendenti. Ad ogni modo, anche l’arretramento della tutela contro il licenziamento è un segno dei tempi. Tempi in cui trionfa la tesi secondo la quale il potere pubblico non deve impicciarsi della problematica del lavoro se non per spogliarlo dei suoi diritti; una tesi che alimenta un clima di delegittimazione della Costituzione e dunque di deresponsabilizzazione della politica. Infatti, un capitalismo che – per tagliare i costi di produzione e riabilitare il potere unilaterale di comando nell’impresa – decentra, esternalizza, flessibilizza ha esattamente ciò di cui ha bisogno: la legalizzazione dell’utilizzo del lavoro in prestito, a giornata, a ore, occasionale, “a progetto”, para-subordinato e, il più delle volte, fraudolentemente autonomo. Come dire che, per scappare volente o nolente dal diritto del lavoro del Novecento, la gente paga un prezzo: si è assuefatta all’idea che il lavoro è una merce. Si dirà che non aveva mai cessato di essere tale. Ora, però, mercificazione non è più una parolaccia. Mentre certamente lo era per gli autori delle Costituzioni post-liberali dell’Europa contemporanea.
Si può ricavare una morale da questa succinta rassegna? Sì, ed è questa. Anche a costo di esporsi al rischio che la permanente situazione di minorità in cui versa divenga oggetto e pretesto di abusi o strumentalizzazioni, il lavoro non può fare a meno del presidio che soltanto lo Stato è in grado di attrezzare, con le sue leggi e i suoi apparati coercitivi, promozionali e di controllo. È senz’altro vero che, così, il lavoro confessa la sua debolezza. Ma è sicuro che non gli conviene negarla. Per lui “meno Stato, più mercato” significa che la politica produrrà leggi al servizio del capitale.
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