Dal 1° gennaio 2019 le lavoratrici italiane hanno la facoltà di astenersi dal lavoro esclusivamente dopo il parto. Il comma 485 della legge 30 dicembre 2018, n. 145 ha ritoccato la regola base dedicata al congedo di maternità per le lavoratrici, consentendo il lavoro durante l’intero periodo della gravidanza, senza obbligo alcuno di sospensione e con il supporto di certificazioni mediche attestanti «che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro».
Dal punto di vista strettamente tecnico-giuridico potremmo limitarci a segnalare che l’intervento avrebbe dovuto più correttamente agire sulla regola già introdotta nel 2000 (a seguito dell’approvazione della legge 53, l’ultima, ma anche l’unica legge approvata contenente un disegno organico in materia di maternità, paternità e cura, oltre che in tema di coordinamento dei tempi delle città), che già prevede la flessibilità del congedo stesso fino al mese precedente la data del parto presunto (art. 20 d.lgs. 151/2001). In effetti, il congedo di maternità della durata di 5 mesi (retribuito solo nella misura indicata dalla legge dell’80%) non cambia i propri connotati fondamentali, dal momento che ci si limita a spostare in avanti il periodo della sua fruizione, potendo arrivare anche fino alla data del parto. Sempre dal punto di vista tecnico-giuridico, potremmo ricordare che il datore di lavoro può consentire alla lavoratrice in gravidanza di continuare a lavorare senza incorrere in sanzioni penali solo se ciò è espressamente previsto dal legislatore, come continua a recitare l’art. 18 ancora intitolato Sanzioni.
Perché, nonostante il tempo intercorso dall’approvazione della prima legge sulla maternità nel periodo post-costituzionale e la quantità di interventi correttivi delle disposizioni in vigore da quasi cinquant’anni (1971-2019), il congedo di maternità è ancora mantenuto sotto la rubrica intitolata Divieto di adibire le donne al lavoro (art. 16)?
È sulla distanza simbolica tra il presente della genitorialità e le contraddizioni del sistema regolativo in vigore che si preferisce concentrarsi in questa sede, una distanza che svela quanto sia minimale la novità legislativa dell’autunno-inverno 2018-2019. Il mancato allineamento segnala – non solo dal punto di vista simbolico e non solo per gli addetti ai lavori, come vedremo – che non è affatto chiaro che modello di tutela e sostegno della maternità e della paternità ha in mente il nostro legislatore, almeno dalla XVI legislatura in poi avviata nel 2008, per tappe successive e con interventi pensati – perlopiù – come stampelle delle ininterrotte riforme del mercato e del lavoro in Italia (si ricordi ad esempio il Jobs Act con il d.lgs. 80/2015 o, ancora prima, a seguito del Collegato lavoro del 2010, con il d.lgs. 119/2011).
A un sistema di regole rigide, costruite su congedi obbligatori e astensioni meramente facoltative della sola madre lavoratrice subordinata, era necessario far seguire un sistema regolativo attento alla completa parificazione tra genitori naturali e affidatari o adottivi, teso a riconoscere un dovuto ruolo dei padri nel contesto della cura dei figli, anche disabili, e un'estensione delle regole protettive nei confronti dei genitori – lavoratori autonomi e liberi professionisti – che si facesse anche carico dell’estensione delle formule di tutela nei confronti della genitorialità Lgbt, senza scomodare tutte le Corti che, a ogni livello e con ogni competenza in materia, diretta o solo indiretta, sono chiamate ad arginare le antinomie tra il reale sistema economico-sociale e le regole dedicate alla genitorialità. Senza sottovalutare – as usual – le strette connessioni tra rapporto di lavoro e rapporto previdenziale, come è successo in particolare tra il 2015 e il 2017 a seguito della cancellazione della collaborazione a progetto, i cui effetti sono stati solo parzialmente sanati con l’approvazione della l. 81/17 dedicata allo statuto del lavoratore autonomo.Il risultato – un disegno complessivo teso a dare una risposta chiara e coerente al già difficile equilibrio teorico da raggiungere tra tutela del figlio, dell’eguaglianza della donna, la parità tra i genitori –ha prodotto un testo unico pieno di ridicole forzature tecniche e vuoti di tutelaIl risultato di un’infinita sequenza di correzioni senza un disegno complessivo teso a dare una risposta chiara e coerente al già difficile equilibrio teorico da raggiungere tra tutela del figlio, dell’eguaglianza della donna, la parità tra i genitori – qualunque sia il loro orientamento sessuale – e rispettoso della tutela sociale di ogni nucleo familiare (anche composto da lavoratori autonomi e/o collaboratori coordinati continuativi) ha prodotto un testo unico pieno di ridicole forzature tecniche oltre che di evidenti vuoti di tutela.
Qualche esempio? L’art. 28, dedicato al Congedo di paternità, contiene regole per i genitori lavoratori autonomi nei confronti dei quali l’ordinamento non riconosce il congedo, ma solo un’indennità senza astensione. L’art. 70 è intitolato alle Indennità di maternità per le libere professionistiche, ma in realtà contiene regole specifiche sul padre libero professionista cui spetta l’indennità «di maternità» per il periodo in cui sarebbe spettata alla madre libera professionista o per la parte residua, solo in caso di morte o di grave infermità della madre, ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre. Con ciò evitando di seguire la strada che la Corte costituzionale aveva segnato nel 2005 valorizzando la libera scelta dei genitori su chi potesse fruire del congedo. L’art. 42 contiene le regole per i Riposi e permessi con figli con handicap grave che a seguito dei numerosi interventi della Corte costituzionale ha visto completamente ridefinita la platea dei beneficiari che è arrivata ad includere, al posto del genitore, lo stesso figlio «che, al momento della presentazione della richiesta del congedo, ancora non conviva con il genitore in situazione di disabilità grave, ma che tale convivenza successivamente instauri, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente, del padre e della madre, anche adottivi, dei figli conviventi, dei fratelli e delle sorelle conviventi, dei parenti o affini entro il terzo grado conviventi, legittimati a richiedere il beneficio in via prioritaria secondo l’ordine determinato dalla legge» (Corte cost. n. 232/2018).La madre modello Wonder Woman che lavora fino all’ultimo giorno prima del parto ci consente di rispolverare dibattiti scientifici sempre attuali sul rapporto tra parità e tutela della donna lavoratriceLa madre modello Wonder Woman che lavora fino all’ultimo giorno prima del parto ci consente di rispolverare dibattiti scientifici sempre attuali sul rapporto tra parità e tutela della donna lavoratrice, come ci ricorda Maria Vittoria Ballestrero dalle pagine di «Lavoro e diritto» ricordando l’opera di Anna Kuliscioff. La stessa Wonder Mom ci impone di non dimenticare le contraddizioni dell’Unione europea in materia che – bloccata dai veti incrociati, non solo dei Paesi del blocco di Visegrad e alle prese con la Brexit – continua a non aggiornare la normativa dedicata alla sola gravidanza e al puerperio non riconoscendo diritti propri alle madri adottive o congedi propri (e non succedanei alla madre) dei padri lavoratori.
In attesa delle inevitabili disposizioni applicative che si concentreranno sulla quantità, qualità e tempistiche delle certificazioni necessarie per preservare la libertà della madre di scegliere se lavorare o astenersi, possiamo solo allungare l’elenco della spesa delle modifiche doverose del nostro ordinamento giuridico per evitare di farci distrarre da questo ennesimo «dito» (sui cui si scagliano già i sostenitori e i detrattori del congedo di maternità last minute) e che punta diritto a quella «luna» in cui si vede chiaramente quanto profondamente il lavoro sia cambiato, quanti padri vogliano prendersi cura dei figli e anche quante famiglie si siano, nel frattempo, tinte d’arcobaleno.
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