Solo perché una volta ho scritto un pezzo su Taylor Swift per un prestigioso supplemento culturale, solo perché qualche settimana fa ho fatto un apprezzato seminario su Taylor Swift al dipartimento di Sociologia dell’altrettanto prestigiosa Università di Trento (al secondo piano il seminario su Taylor Swift, al piano terra il pacifico sit-in contro Israele, al primo piano uffici. Ecco, e non scherzo, un’università in cui uno è contento di insegnare, un’università in cui si pensano e si fanno cose diverse), solo per questo i miei colleghi adesso mi bombardano di link a recensioni dedicate al nuovo disco di Taylor Swift, The Tortured Poets Department (TTPD). Evidentemente credono che TS mi stia a cuore; mentre la verità è che TS mi sta molto a cuore, moltissimo, perché è una degli artisti che in questi ultimi anni mi hanno dato più gioia e consolazione, nella mia dieta per lo più molto seria, molto professorale, fatta soprattutto di poeti (Dante, Larkin) e narratori (Cechov, letto o riletto tutto quanto) e saggisti (basta col name-dropping).
Come sono queste recensioni? Così così, devo dire. Raramente entrano nel merito, per lo più stanno alla periferia delle canzoni, riflettono stancamente sul fenomeno-Swift, allineano pettegolezzi sui suoi amori cercando di collegare questa canzone a questo o quest’altro partner sentimentale, un po’ come una volta facevano i dantisti più pedestri con le donne amate da Dante Alighieri. Quando entrano nel merito lo fanno affrettatamente, provando a portare un doppio album di 31 canzoni sotto un unico denominatore o slogan, mentre invece bisognerebbe distinguere, segnare le differenze piuttosto che le analogie, dato che si tratta di canzoni e non di capitoli di uno stesso romanzo.
La recensione più sciocca mi è parsa quella di Lindsay Zoladz uscita sul «New York Times», che si rammarica perché TS continua a concentrarsi «sul suo mondo interiore» anziché affrontare «challenging questions» come «il genere, il potere, la femminilità matura» (oh sì, abbiamo urgente bisogno di altri sociologi con la chitarra); la più intelligente quella di Julie Burchill, uscita sullo «Spectator», la cui tesi fondamentale è che TS sia una geniale canaglia, dotata di un talento per le parole paragonabile a quello di Updike o di Zadie Smith, che con le canzoni si vendica in maniera sanguinosa delle ferite che questo o quel fidanzato o questo o quel membro della società dello spettacolo le ha inflitto (o lei ritiene che le abbia inflitto: la ragazza pare suscettibilissima).
Di questa reale o immaginaria battaglia che TS ha combattuto contro il mondo, e in cui ha evidentemente trionfato, Who’s Afraid of Little Old Me potrebbe essere l’ultimo capitolo, la canzone che chiude i conti; perciò è interessante ascoltarla con un po’ di attenzione. Secondo me è anche una canzone bellissima, tra le tre o quattro più belle che TS ha scritto nei suoi vent’anni di carriera.
La situazione iniziale è o sembra essere (negli anni, raffinandosi, i testi di TS si sono fatti più allusivi, quindi più opachi) quella ben nota della star inseguita dai cacciatori di fama:
The who’s who of «Who’s that?» is poised for the attack
But my bare hands paved their paths
You don’t get to tell me about sad.
La perifrasi iniziale non è banale: il «who’s who» è, come si sa, il libro o giornale o sito che contiene i nomi e le biografie delle persone famose. Ma il mondo delle celebrità è pieno di celebrità fasulle o velleitarie; di qui la domanda «who’s that?»: chi è questo tizio? Nel pletorico universo del glamour americano, l’album dei famosi è popolato da gente che nessuno conosce.
A questo che sarà appunto un giornale o un sito di pettegolezzi lei stessa ha «spianato la strada» agendo male, forse fidandosi delle persone sbagliate; di qui la sua tristezza, un campo nel quale TS non accetta lezioni («you don’t get to tell me about sad»). Naturalmente si potrebbe obiettare che in fondo un po’ di tristezza è un prezzo ragionevole da pagare in cambio della devozione che le vota mezzo pianeta, e di un miliardo di dollari di patrimonio personale, e che la nostra pietà dovremmo spenderla per vittime reali e non immaginarie, ma allora bisognerebbe mettersi a sindacare su tutte le star autodistruttive dell’ultimo secolo, da Brando a Presley a Cobain alla Winehouse. In realtà, uno può essere triste, depresso, disperato anche se ogni sera settantamila persone acclamano il suo nome e il suo conto in banca cresce a ritmi paperoneschi; o può anche fare un po’ di scena, being dramatic, come si dice: e TS è quasi sempre super-dramatic, nel senso che «anche meno» è il commento che viene naturale fare spesso, ascoltando le sue canzoni. Ma si capisce: l’arte pop non nasce da passioni medie, dai sentimenti tenuti in sordina, ha bisogno di iperboli.
Taylor Swift è quasi sempre super-dramatic. Ma si capisce: l’arte pop non nasce da passioni medie, dai sentimenti tenuti in sordina, ha bisogno di iperboli
Con la seconda strofa entriamo in un regime che non è quello della realtà ma quello della fantasia. TS immagina di liberarsi dal patibolo alla quale è stata condannata e di librarsi sulla strada in cui vive uno you che qui e altrove nel testo andrà tradotto con "voi", non con "tu": è il pubblico, sono i giornalisti e i blogger che la perseguitano, è la società dello spettacolo:
So I leap from the gallows and I levitate down your street
Crash the party like a record scratch as I scream
«Who’s afraid of little old me?»
You should be.
«Who’s afraid of» non è un’allusione a Who’s afraid of Virginia Woolf di Albee, come ho letto da qualche parte (non esageriamo), ma semmai alla filastrocca dei tre porcellini: «Who’s afraid of the big bad wolf». L’epiteto «little old me» va letto insieme al verso che segue, perché il suo suono familiare, amichevole ("piccola vecchia me") contrasta con la minaccia contenuta nella frase «You should be». Si dipinge come innocua, ma non è innocua per niente.
The scandal was contained
The bullet had just grazed
At all costs, keep your good name
You don’t get to tell me you feel bad.
Is it a wonder I broke? Let’s hear one more joke
Then we could all just laugh until I cry.
È passato del tempo. I cacciatori di scandali sono venuti e se ne sono andati, i danni sono stati limitati, fino alla prossima volta (è probabile che gli swifties sappiano di quale scandalo precisamente si tratti, a noi l’aneddotica non importa); ma intanto, come in altre sue canzoni che giocano sull’opposizione me vs gli altri, tutti (all) ridono mentre lei (I) piange.
I was tame, I was gentle ’til the circus life made me mean
«Don’t you worry, folks, we took out all her teeth»
Who's afraid of little old me?
Well, you should be
You should be
(You should be) You should be
You should be (you should be)
You should be (you should be)
You should be.
Non più una condannata al patibolo bensì una bestia che un tempo era mansueta ma che la vita del circo ha reso cattiva, e a cui i circensi hanno tolto tutti i denti. «I and the public know / What all schoolchildren learn, / Those to whom evil is done / Do evil in return». Questo è Auden, September, 1, 1939. TS dice più o meno la stessa cosa, ma con la bella e non trita metafora dell’attrazione da circo, e con l’intelligente innesto della voce dell’imbonitore in discorso diretto: «Don’t you worry, folks, we took out all her teeth».
Poi la voce torna a essere la sua, stavolta diretta a quello che in retorica si definisce tu diatribico, distinto dal voi cui TS si rivolge nel resto del brano.
So tell me everything is not about me
But what if it is?
Then say they didn't do it to hurt me
But what if they did?
Ogni cosa riguarda lei: che in effetti è vero, se si pensa alla copertura mediatica di cui ha goduto o sofferto negli ultimi anni. E i suoi nemici hanno voluto farle del male, riuscendoci:
I wanna snarl and show you just how disturbed this has made me
You wouldn’t last an hour in the asylum where they raised me.
Quest’ultimo verso, così drammatico e sonante, è già pronto a entrare nella storia. Pochi giorni dopo l’uscita di TTPT, Monica Lewinsky lo ha twittato insieme a un’immagine della Casa Bianca. Gillian Anderson ha fatto lo stesso con un fotogramma di X Files. Ma chi, con un po’ di megalomania, non è pronto ad additare il proprio personale manicomio, e a celebrare la propria capacità di resistere? Un amico di Monica Lewinsky, Bill Clinton, ha detto una volta che «passiamo il novanta per cento della vita a tenere duro»: non lo pensiamo tutti? Non abbiamo o crediamo di avere tutti la nostra battaglia da combattere? Sì, è un verso che verrà ripetuto, ricordato.
E adesso un altro volo della fantasia:
So all you kids can sneak into my house with all the cobwebs
I’m always drunk on my own tears, isn't that what they all said?
That I’ll sue you if you step on my lawn
That I’m fearsome and I’m wretched and I’m wrong
Putting narcotics into all of my songs
And that’s why you’re still singing along.
Prima una star inseguita dai curiosi, poi una condannata a morte, poi un animale da circo ridotto all’impotenza. Ora TS s’immagina come una signora inacidita, la vecchia pazza del quartiere che porta in tribunale chi calpesta il suo prato, e spaventa i ragazzini che sono entrati di nascosto nella sua villa piena di ragnatele. Non è questo che tutti dicono di lei?
Ci si aspetta che la descrizione si concluda con qualche altro dettaglio sgradevole, invece succede il contrario, e il tono – anche il tono della voce che pronuncia le parole – si rasserena, si addolcisce. La sua colpa sarebbe quella di scrivere canzoni piene di narcotico, come gli intrugli delle streghe. Già, ma questa è anche la ragione per cui il pubblico continua a cantarle: può darsi che illudano, che istupidiscano, persino, ma è per questo che hanno tanto successo.
Nel finale torna un’ultima volta il ritornello, ma con una variazione significativa che finisce di esplicitare la metafora della "vita da circo" che era stata introdotta nei versi precedenti:
So I leap from the gallows and I levitate down your street
Crash the party like a record scratch as I scream
«Who’s afraid of little old me?»
I was tame, I was gentle ’til the circus life made me mean
«Don’t you worry, folks, we took out all her teeth»
Who's afraid of little old me?
Well, you should be
You should be
(You should be) You should be
’Cause you lured me (you should be)
And you hurt me (you should be)
And you taught me
You caged me and then you called me crazy
I am what I am ’cause you trained me
So who’s afraid of me?
Who’s afraid of little old me?
Who’s afraid of little old me?
È quello che succede ai fenomeni da fiera: si dà loro la caccia, li si mette in gabbia, si fa loro del male e allora, quando cercano di reagire, si dice che sono dei mostri. Ma lei non ha fatto altro che seguire le istruzioni: "sono quello che sono perché, nel manicomio che è la società dello spettacolo, mi avete educato ad essere così".
A differenza di altre canzoni di TS (per esempio You’re on your own, kid o No Body No Crime o Timeless), questa non racconta veramente una storia che vada da un punto di origine a un punto d’arrivo; è piuttosto un ritratto che si precisa e si fa più nitido a mano a mano che il testo procede. Ritratto doppio: del voi a cui TS si rivolge (i curiosi, i pettegoli, i maligni, i violenti) e dell’io narrante, metaforizzato ora come spirito che plana sulle case dei detrattori, ora come animale in gabbia, ora come donna depressa segregata dal mondo.
Non è una cosa che possa stupire i suo fan, ma desta comunque ammirazione l’abilità impressionante nell’uso del linguaggio
La crudeltà degli altri naturalmente non è un tema nuovo. In New Romantics TS ironizza sui mattoni che la gente le tira addosso; in Anti-Hero sulle malignità che si dicono intorno al suo falso altruismo. Ma in Who’s Afraid of Little Old Me il tema viene sviluppato con un’ampiezza e, soprattutto, con una serietà, e un dolore, che non mi pare abbia paragoni nel suo repertorio. E anche con una speciale felicità espressiva. Ci sono certi versi lapidari; c’è la metafora-guida dell’animale braccato e del circo; c’è una gamma molto varia di formule che possono essere ricondotte alla figura retorica classica della sermocinatio: la finzione di dialogo («so tell me… then say»); l’apostrofe («you don’t get to tell me about sad»); la mimesi del parlato di un personaggio fittizio («Don’t you worry, folks, we took out all her teeth»). In generale – e non è una cosa che possa stupire i suo fan, ma desta comunque ammirazione – c’è un’abilità impressionante nell’uso del linguaggio.
Infine, il crescendo della musica asseconda un discorso che, come accennavo, più che quella del racconto, prende la forma della dimostrazione, una dimostrazione il cui risultato è fissato nella formula finale, «I am what I am ’cause you trained me». Chi non ha rimuginato tra sé e sé parole come queste, ogni volta che la vita lo ha messo nella condizione di doversi o volersi assolvere, incolpando gli altri? Ed esiste – per usare l’aggettivo che rimbalza in tutti i commenti su YouTube – sentimento o emozione più relatable di questo, nella lunga Era della Recriminazione e del Lamento che stiamo vivendo? Segnatevi queste parole: instant classic.
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