La questione dell’autonomia differenziata, cioè la possibilità di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia accordate con legge sulla base di un’intesa tra Stato e singola regione interessata (art. 116.3 Cost.), è ancora nel vivo del suo svolgimento, ma grazie all’importante pronuncia della Corte costituzionale (192/2024) sembra avviata verso il chiarimento del quadro istituzionale in cui si colloca e anche del suo senso concreto. A cominciare dal fatto che va interpretata come una clausola di flessibilità che deroga all’assetto ordinario, e dunque la relativa proposta va motivata e contestualizzata con adeguata istruttoria.

Un senso in realtà abbastanza chiaro c’era fin dall’origine, come del resto fu fatto all’inizio (progetto Toscana, 2003). Ma è un senso che si è perso subito, perché per anni il terreno è rimasto abbandonato fino al ribaltamento dello schema con richieste regionali assai estese per poteri e risorse riguardanti tutte le materie.

La vicenda, esemplare, ha avuto numerosi protagonisti istituzionali: le regioni, le tre (Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna) che nel 2017 avevano avanzato le proprie richieste e le altre che nel corso del tempo si sono affiancate o frontalmente opposte alla legge che ne disciplinava l’iter e l’esame (Campania, Puglia, Sardegna, Toscana); il governo (meglio, i governi, da Bressa a suo tempo fino a Calderoli e Salvini) con le diverse (e diversamente orientate) coalizioni; il Parlamento e relative mutevoli maggioranze e opposizioni. Ma soprattutto è stata accompagnata da interventi contrapposti sempre più numerosi e accesi di realtà culturali, sociali ed economiche in un crescendo rossiniano che dagli esperti (Banca d’Italia compresa) e dalle sedi tecniche ha raggiunto i media e l’opinione pubblica, i sindacati, la Confindustria, la stessa Conferenza episcopale italiana (ampi e recenti riferimenti in Riforme necessarie e riforme sbagliate, «il Mulino», n. 3/2024 , nei contributi di F. Clementi, E. Cheli, G. Viesti, M. Bertolissi e F. Cortese).

Perché esemplare? Perché, come nella tragedia classica, tutti i protagonisti hanno qualche ragione, ma è proprio questo che rende insuperabile il conflitto costituendone la ragione profonda.

Lombardia e Veneto sapevano benissimo di forzare lo strumento dell’autonomia differenziata: optare per la totalità delle richieste possibili rispetto alla più limitata accezione originaria (forme e condizioni particolari di autonomia) comportava incidere in profondità sul sistema nel suo complesso, il centro e le altre regioni non differenziate, cioè affrontare i nodi storici (sistema amministrativo e risorse) del regionalismo, il cui superamento riguarda tutti e certo non è compatibile con la dimensione ridotta di trattative bilaterali tra vertici politico-amministrativi.

È innegabile che il processo di messa a punto dell’autonomia regionale e locale, dal titolo V Cost. del 2001 al federalismo fiscale del 2009, è bloccato da più di vent’anni

Ma è altrettanto innegabile che il processo di messa a punto dell’autonomia regionale e locale, dal titolo V Cost. del 2001 al federalismo fiscale del 2009, è bloccato da più di vent’anni. E al contrario, si è avuta una fortissima centralizzazione di poteri e risorse di cui le vicende degli ultimi anni (dalla crisi del 2008 all’epidemia e alle vicende belliche più recenti) sono solo ulteriori elementi moltiplicatori.

Certo, la forzatura e il cortocircuito appena ricordati restano, ma è difficile negare che le motivazioni per farlo fossero offerte su un piatto d’argento, così come altrettanto può dirsi sul lato opposto: per coloro che nell’iniziativa avviata dalle tre regioni hanno visto messi a rischio i principi del nostro sistema e la più prosaica, ma non meno conflittuale, “secessione dei ricchi”.

Vedremo come andrà a finire, ma ce n’è abbastanza per considerare che un possibile passo avanti nelle relazioni centro-autonomie è diventato occasione di un esteso e duro conflitto che senza l’intervento della Corte costituzionale avrebbe lasciato irrisolti tutti i problemi sul tavolo aggiungendone qualcuno di più.

Considerazioni analoghe si possono fare per il centro, politico e amministrativo. L’instabilità delle maggioranze unita a ragioni di urgenza e all’indeclinabile responsabilità sistemica nei confronti di vincoli comunitari e sovranazionali hanno aggiunto a quanto si è visto una concentrazione senza precedenti di poteri e risorse estranea al pluralismo istituzionale del nostro Paese. Concentrazione neppure compensata da una seria collaborazione al centro delle regioni e delle autonomie locali, malgrado la risalente previsione di sedi parlamentari (Commissione questioni regionali, 2001) o governative (Conferenza per il coordinamento della finanza pubblica, 2009) dedicate a questo fine.

Non averlo fatto, e la conferma più recente è offerta dalle vicende del Pnrr, ha sovraccaricato il centro di compiti complessi, ha tagliato fuori realtà comunque essenziali nella fase operativa e soprattutto ha bloccato la messa in opera di innovazioni necessarie. Con il serio rischio di nuove e ingenti risorse, come digitalizzazione e nuovo personale, disperse in vecchi contenitori invece di essere destinate all’innovazione centrale e locale.

Tutto questo ha oggettivamente reso ancora più problematica la mediazione tentata nel giugno scorso dal Parlamento e dal ministro Calderoli (l. 86/2024), non solo per le soluzioni adottate che hanno accentuato l’aspetto negoziale-bilaterale delle intese a base delle devoluzioni differenziate (procedimento locale, ruolo del governo, commissioni paritetiche), ma per l’enfasi posta sulla complessa definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep), incidenti sui diritti civili e sociali obbligatori su tutto il territorio nazionale ma ora pregiudiziali per ogni devoluzione relativa a queste materie.

Con il probabile risultato (davvero non voluto da nessuno?) di un lungo cammino senza un prevedibile punto di arrivo e soprattutto, grazie al regime uniforme adottato, con il sostanziale accantonamento di altre soluzioni, come l’accezione più ridotta (e fruibile) del 116.3 Cost. e quelle offerte da altre disposizioni costituzionali (117.6 e 118).

La Corte costituzionale (sentenza 192/2024), come Atlante, si è caricata sulle spalle il macigno di questa complicata matassa, utilizzando tutta la sofisticata strumentazione tecnica di cui dispone per rimuovere le soluzioni più discutibili della legge Calderoli (devoluzione di funzioni e non di intere materie; definizione di Lep sottratta al Parlamento; tema dell’invarianza finanziaria), per chiarire e completare il procedimento per l’intesa e per puntualizzare importanti aspetti fino a ora rimasti in ombra.

Il tutto con un amplissimo preambolo che traccia i punti fermi ai quali riferire l’ormai non più rinviabile sistemazione delle relazioni centro-autonomie: principi (sussidiarietà e flessibilità), allocazione delle funzioni e relativo esercizio (collaborazione, sussidiarietà, differenziazione, efficacia e efficienza) e soprattutto responsabilità per l’uso delle risorse e i risultati raggiunti. Un richiamo autorevole e necessario alla grammatica della democrazia e dei suoi fondamenti che dovranno guidare le innovazioni in materia.

Tuttavia, malgrado questo, anche la Corte rischia di pagare qualche prezzo, inevitabile a causa della situazione in atto e della straordinaria ampiezza della pronuncia.

È infatti costretta a una forte e diretta esposizione nei confronti del governo e del Parlamento, dopo averne ribadita la centralità, e questo può spiegare l’opzione di lasciare in piedi frammenti della legge Calderoli a sua volta oggetto di consultazione referendaria, malgrado ne siano compromesse le parti vitali. Certo, così lascia alla discrezionalità del legislatore lo spazio per una normativa applicativa, ma non scioglie la questione (cui è legata l’interpretazione più ristretta del 116.3) della possibilità di farne a meno. Se venisse a mancare questa soluzione, resterebbe preclusa l’accezione preferibile della disposizione costituzionale.

Ma anche il referendum, ammesso che resti in piedi nel giudizio che la stessa Corte renderà tra pochi giorni, può aggiungersi all’elenco delle vicende in cui tutti i contendenti perdono. In caso di esito positivo (prevalere dei sì alla abrogazione), tale soluzione peserà in futuro come un macigno su ogni questione di autonomia e verrà utilizzata a sostegno dell’iper-centralismo in atto, mentre l’esito negativo finirebbe per agevolare l’interpretazione estesa di un regionalismo differenziato che l’esperienza ha già dimostrato essere insostenibile e fonte di guai. Il primo dei quali è l’incauta contrapposizione Nord-Sud, rispetto alla quale la distribuzione dei voti referendari per area territoriale finirebbe per gettare ulteriore benzina sul fuoco.

Resta irrisolto ciò che ha acceso gli animi e reso difficile il dialogo, cioè il nervo scoperto di temi fortemente conflittuali: la diffusa percezione nelle aree territoriali e fasce sociali più deboli dell’irrimediabile conflitto tra uguaglianza e flessibilità o differenziazione

Sullo sfondo, il convitato di pietra del centro burocratico-amministrativo, silenzioso e (finora) vincente avversario di ogni forma di collaborazione con le autonomie, sia al centro sia in periferia.

Ma, soprattutto, resta irrisolto ciò che ha acceso gli animi e reso difficile il dialogo, cioè il nervo scoperto di temi fortemente conflittuali: la diffusa percezione in aree territoriali e fasce sociali più deboli dell’irrimediabile conflitto tra uguaglianza e flessibilità o differenziazione. Ciò che, nella carenza di solidi riferimenti di sistema, porta facilmente a cercare garanzie nella rigidezza, nell’uniformità. Quando necessario, davanti al giudice.

Proprio per questo, che ovviamente mette in discussione i presupposti stessi dell’autonomia, ridefinire un assetto credibile di regionalismo significa qualcosa di più che (come doveroso) fare i conti con i profondi mutamenti planetari (tecnologici, ambientali, economici e sociali) in atto, che comportano la necessità di rivedere l’assetto ormai datato di molte funzioni e materie.

Richiede infatti un sistema complessivo bilanciato e credibile tra un centro capace di tracciare gli indirizzi strategici presidiando i beni indivisibili e garantendo il rispetto delle regole del gioco, a cominciare dal rispetto degli impegni assunti, e un sistema delle autonomie territoriali espressione del pluralismo istituzionale e sociale in grado di declinare le diverse politiche, dotato dei necessari strumenti per assicurare adeguatezza ed efficacia alla propria azione, pienamente responsabile verso il Paese e verso le proprie comunità delle risorse utilizzate e dei risultati raggiunti.

La strada è quella, impegnativa per tutti, tracciata dall’articolo 5 Cost. e ribadita dalla Corte nell’indicare i principi di riferimento: il resto appartiene ai tanti passi necessari a percorrerla. A conferma, come provano le vicende appena esaminate, che non ci sono scorciatoie. E che, quando sembra ci siano, si bruciano inutilmente energie, risorse, aspettative.