I vescovi e il voto. Lo scorso 12 aprile, con il documento Our First, Most Cherished Liberty, la Conferenza episcopale statunitense ha annunciato la sua battaglia in difesa della libertà di religione. Il nemico è l’amministrazione Obama, accusata di intervenire troppo spesso negli affari ecclesiastici, siano questi di natura organizzativa o legati ai servizi che la Chiesa offre: educazione, accoglienza, sanità. Tra gli attacchi subiti dalla Chiesa, nel testo della dichiarazione, svetta al primo posto «Hhs mandate for contraception, sterilization, and abortion-inducing drugs» (mandato del Dipartimento di sanità e servizi alla persona per la contraccezione, la sterilizzazione e i farmaci abortivi): con la nuova proposta di riforma sanitaria, l’amministrazione vorrebbe rendere obbligatorio, per tutti i datori di lavoro, fornire ai propri dipendenti una copertura assicurativa, comprensiva anche dei costi dei dispositivi per il controllo delle nascite. Si tratta, quindi, di strumenti che violano i principi morali della fede cattolica.
Sin dall’annuncio della riforma, l’amministrazione si è dichiarata disponibile ad aprire un tavolo di negoziazione. Di volta in volta, nonostante la reticenza della Conferenza episcopale e le dichiarazioni dell’Arcivescovo di New York, Timothy Dolan, l’iniziale testo ha subito delle modifiche. Allo stato attuale, la copertura dei costi per tali dispositivi sarebbe a carico delle compagnie assicurative o di terze parti, lasciando così le istituzioni religiose libere di astenersi.
La rivendicazione dei vescovi si basa su un diritto costituzionale sancito dal Primo emendamento: la libertà di religione. Questa si basa sul principio del libero esercizio di culto e sul rifiuto di stabilire la predominanza di alcun credo religioso sul corpo politico. In una società pluralistica come quella statunitense, d’altra parte, non sarebbe possibile il contrario. E i cattolici lo sanno bene: l’elezione del cattolico (e irlandese) Kennedy alla Casa Bianca nel 1960 fece emergere proprio la difficoltà dei cattolici statunitensi di condividere il principio di libertà di religione e di pluralismo religioso senza necessariamente provocare uno strappo con Roma.
La strategia annunciata dai vescovi il 12 febbraio scorso pareva mirata a coinvolgere i fedeli in manifestazioni di varia natura, così da animare il dibattito all’interno delle diocesi: la campagna Fortnight for Freedom, ad esempio, promuove per il mese di giugno due settimane di preghiera durante le quali ricordare i martiri della Chiesa vittime della persecuzione politica, culminando con le celebrazioni del ben noto e laicissimo Independence Day.
Il 20 maggio scorso lo scontro ha preso però una nuova piega: 43 istituzioni cattoliche hanno sporto denuncia davanti a 12 diverse corti federali contro il dipartimento di Sanità, con l’accusa di violazione del Primo emendamento. La prima reazione è lo stupore: la riforma non entrerebbe in vigore prima dell’agosto del 2013, lasciando quindi più di un anno, e un eventuale cambio di amministrazione, per discuterne i dettagli. Dal punto di vista legale, inoltre, non è semplice stabilire la misura della violazione del libero esercizio del culto né tantomeno i parametri di definizione di «istituzione cattolica». A questo si aggiunga, tra l’altro, la difesa dei diritti delle donne non cattoliche che lavorano all’interno di queste organizzazioni. Allo stupore subentra però la comprensione del fenomeno che, lungi dall’essere ad oggi completa, a pochi mesi dalle elezioni cerca quantomeno di valutare le conseguenze di tale azione sul comportamento degli elettori.
Dopo il 1960, il voto dei cattolici non è più stato omogeneo, tendendo a conformarsi con il comportamento di voto complessivo. Parafrasando un’espressione dello stesso Benedetto XVI, la compagine cattolica statunitense appare piuttosto una Babele. Ai cattolici progressisti, più attenti a tematiche legate all’immigrazione, ai servizi sociali, all’ecologia, si oppongono quelli conservatori, a disagio con la posizione del magistero rispetto agli omosessuali e alla contraccezione. Ci sono poi i cattolici di recente immigrazione, latino-americani, che nell’ultima elezione hanno votato massicciamente democratico, e i cattolici ‘bianchi’ (irlandesi, italiani, polacchi, ecc), il cui voto è ulteriormente frammentato secondo collocazione geografica (al Sud sono molto più conservatori) ed età (i giovani più progressisti, ma meno fedeli al voto democratico). Rispetto all’allineamento con Roma, in un recente sondaggio condotto dalla Cnn, l’88% dei cattolici intervistati si è espresso in modo favorevole rispetto all’assunzione di una propria posizione autonoma su questioni morali come aborto e contraccezione.
Sebbene siano in tanti a prospettare una svolta epocale all’interno dei rapporti tra Chiesa cattolica e governo statunitense, le strategie seguite sino a oggi dai due candidati – Barack Obama attento ai dati demografici, Mitt Romney più focalizzato su variabili economiche – danno l’impressione di aver colto in pieno il distacco, ormai ineludibile, tra le priorità di una gerarchia indebolita e le esigenze dei propri fedeli.
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