Trump, la riforma fiscale e le elezioni di novembre. Come andranno le elezioni autunnali al Congresso? Ci sono fattori a favore dell’uno e dell’altro partito e la vera posta in gioco è se i repubblicani manterranno il controllo della Camera e il programma di Trump potrà proseguire. Uno dei terreni più controversi è l’effetto della recente riforma fiscale sulla crescita economica. L’economia americana va bene: nell’ultimo quarto del 2017 è cresciuta del 2,3%, la disoccupazione è molto bassa (pari al 4,1%) e la Borsa è aumentata più del previsto, soprattutto grazie ai maggiori profitti di impresa.
Secondo Lawrence H. Summers, ministro del Tesoro con Clinton, la presente amministrazione non ha svolto alcun ruolo nel sollecitare la crescita. Anzi, le debolezze strutturali dell’economia americana, soprattutto la bassa produttività, l’incremento della diseguaglianza, il ristagno dei salari, la carenza di investimenti pubblici mettono in dubbio la possibilità di incrementare o anche solo di sostenere il tasso di crescita attuale (anche se molti analisti indipendenti prevedono per il 2018 un tasso del 2,6% con disoccupazione sotto il 4%). L’altro elemento di rischio è la bolla speculativa in borsa. Dall’elezione del 2016 a fine 2017 i valori azionari sono cresciuti del 26% con un guadagno borsistico di 6,7 triliardi di dollari. L’arricchimento speculativo, molto superiore all’incremento di reddito da lavoro e investimento, può crollare come nel 2008, e causare la recessione.
Sul «Washington Post» l’economista Robert J. Samuelson sottolinea il paradosso tra un quadro politico confuso e caotico e una solida e stabile fiducia economica. Trump potrebbe cercare di sanare il gap con le politiche filo-business delle tasse e della deregulation; e comunque, benché non sia necessariamente merito loro, Trump e i repubblicani traggono vantaggio politico dall’espansione economica.
Di quanto e per quanto tempo la riforma fiscale repubblicana, del valore di circa 1,5 triliardi di dollari, incrementerà la crescita economica? Questo è un primo terreno di controversia. Più o meno tutti gli osservatori sono concordi nel prevedere un effetto di incremento percentuale della crescita. Il diverbio è su quanto, su come affrontare il maggiore deficit, su chi si avvantaggia dei tagli fiscali secondo la scala del reddito, e sulla domanda se i benefici economici finiranno solo nelle tasche dei “ricchi” o rimpingueranno anche la busta del salario. Sull’incremento della crescita economica indotta dalla riforma fiscale, il Council of Economic Advisors del presidente sostiene che esso starà tra il 3% e il 5%, un tasso elevatissimo per un Paese delle dimensioni degli Stati Uniti con una economia di avanguardia. Invece il Tax Policy Center (Tpc), l’ente di studio delle tasse della Brookings Institution di ispirazione democratica, prevede un temporaneo incremento di solo lo 0,7% rispetto ai livelli attuali. Ancora, gli osservatori filo-democratici pensano a uno stimolo molto temporaneo, non oltre il 2018, mentre i filo-Trump prevedono un incremento di diversi anni.
Per quanto riguarda gli effetti sul deficit, il recente comitato congressuale bipartitico Simpson-Bowles sulla responsabilità fiscale ha ritenuto che il governo federale abbia bisogno di una base di introiti pari al 21% del Prodotto interno lordo, e che la riforma fiscale la riduce al 17%, che equivale a circa meno un triliardo di dollari l’anno. I democratici ritengono che il deficit provochi un livello inadeguato di investimenti pubblici, e giustifichi diffusi tagli alle infrastrutture, all’educazione, e soprattutto alla spesa sociale, in particolare ai programmi di tutela della salute Medicaid e Medicare, e alle pensioni della Social Security, già criticati dal capogruppo repubblicano alla Camera, Paul Ryan.
I repubblicani a loro volta accusano questi dati di rispondere a una concezione immobilista dell’economia, e sostengono che la riforma si pagherà da sola o quasi, grazie ai maggiori introiti fiscali dovuti alla più rapida crescita economica. Ma, ribatte il Tpc, la riforma accrescerà comunque il deficit di 1,23 triliardi di dollari in dieci anni, anche tenendo conto della crescita. La maggior parte degli stessi sostenitori della riforma ritiene che l’economia dovrebbe crescere dello 0,4% in più del previsto per coprire il deficit.
Per quanto riguarda i beneficiari della riforma, che riduce le tasse sulle imprese dal 35 al 21%, permette nuove esenzioni fiscali sui patrimoni immobiliari e temporaneamente riduce le tasse individuali, il Tpc ha fatto un calcolo dettagliato. Se si considerano gli americani in quintili di livello di reddito, le tasse dei due quintili più bassi si ridurrebbero tra lo 0,3% e lo 0,5%. Gli appartenenti al quintile intermedio (da 48.000 a 86.000 dollari l’anno, la maggior parte del ceto medio e medio basso) godrebbero di un taglio fiscale medio di 700 dollari l’anno, pari all’1,2% del loro reddito netto. Gli appartenenti all’1% più ricco del Paese riceverebbero un taglio fiscale medio annuale di 37.000 dollari, pari al 22% della riduzione totale. Una enorme, recente ricerca sulla diseguaglianza nel mondo guidata dal noto economista francese Thomas Picketty ha sostenuto che la riforma fiscale è come un motore turbo applicato all’aumento della diseguaglianza in America.
Gli osservatori repubblicani non negano che la riforma sia nettamente orientata a favore del lato dei profitti, dei detentori di capitale e dei redditi alti e altissimi, anche se sottolineano pure il taglio (minore) delle tasse individuali. La cosiddetta trickle-down economics, che essi sostengono, ritiene infatti che bisogna avvantaggiare queste élite di investitori, cosicché i guadagni della crescita “filtrino” fino ai ceti inferiori.
Ma “filtrano” davvero? (a parte altre considerazioni di giustizia economica). I democratici dicono di no, perché l’economia cresce meno del previsto e i suoi guadagni aggiuntivi se li intascano tutti “i ricchi”; e citano i precedenti dei tagli fiscali di Reagan e dell’espansione di Clinton, quando le buste paga continuarono a stagnare. “L’economia odierna – sostiene invece sulla conservatrice «National Review» l’economista Robert Cherry – crea un ambiente particolarmente favorevole a robusti incrementi salariali”. I tagli fiscali e i guadagni di Borsa del ceto medio sosterranno la domanda, e diversamente dai predecessori, la bassa disoccupazione dell’era Trump costringerà le imprese a competere in un mercato del lavoro ristretto, aumentando i salari. La risposta è naturalmente di grande rilievo per il futuro comportamento elettorale della base “proletaria” del presidente.
Come si potrebbe tradurre questo dibattito in chiave elettorale? È troppo presto per dirlo. I repubblicani sottolineano la ritrovata unità tra Casa Bianca e congressisti in nome della vittoriosa approvazione della riforma, tutti tesi a vincere le elezioni intermedie. E aggiungono gli indici di popolarità di Trump, sempre bassi, ma in lieve ripresa, che indicano che il suo blocco elettorale è ancora solido. I democratici ricordano i casi dell’Oklahoma e del Kansas, dove un programma anticipatore stile Trump di riduzione delle tasse ha generato stagnazione, tagli dei servizi e una vera “rivolta fiscale” a rovescio contro la classe dirigente repubblicana locale.
Quindi siamo ancora nella fase dell’“aspetta e vedrai”. A meno che invece non abbiano ragione quegli osservatori, rappresentati nei media dal notissimo commentatore Fareed Zakaria, che sostengono che, nella politica polarizzata del “populismo plutocratico” trumpiano, non sono le convenienze economiche, ma le scelte culturali, valoriali e ideologiche a dettare i comportamenti elettorali.
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