Il miglior risultato mai ottenuto da un candidato socialista alle elezioni presidenziali americane fu quello di Norman Thomas nel 1932, quando ottenne circa 885.000 voti pari al 2,23% dei suffragi espressi. Nel 1948 il candidato progressista (Progressive/American Labor) Henry Wallace ottenne un risultato simile (1.157.000 voti, il 2,41%). Nel 2016, a sorpresa, un fino ad allora poco conosciuto senatore del Vermont, Bernie Sanders, che si definisce “Democratic Socialist”, nelle sole primarie democratiche ha già stracciato i record dei suoi predecessori progressisti/socialisti, anche nel caso in cui si aggiustino i dati per tener conto dell’aumento della popolazione statunitense (l’eccezionale risultato di Sanders è reso possibile dal fatto di aver scelto di competere all’interno del Partito democratico, a cui si e’ iscritto nel 2015, mentre Thomas e Wallace si presentarono come candidati esterni).

Tuttavia Sanders non otterrà la nomina (il vantaggio che Hillary Clinton ha in termini di delegati è troppo elevato per poter essere colmato), ma il successo in termini di voti e di entusiasmo che ha saputo suscitare non può essere ridotto ad una delle tante stranezze che stanno caratterizzando questa campagna.

Bisogna dunque prendere Sanders seriamente, anche se il suo programma elettorale è poco credibile. Esso prevede forti aumenti di spese senza reali vincoli di bilancio. Dal lato economico, i conti semplicemente non tornano (si veda su questo la nota in calce). Inoltre, in termini di politica estera, Sanders può certo rivendicare di aver votato contro la guerra in Iraq (mentre Hillary Clinton votò a favore), ma questo non basta a definire una visione del ruolo che gli Stati Uniti dovranno assumere a livello mondiale nei quattro anni a venire. In realtà, come sottolineato da Hillary Clinton, Bernie è un “single issue candidate”, un candidato con un solo tema o, se si preferisce, una sola questione. Si tratta però di una questione molto importante: la lotta alle diseguaglianze (di reddito, di ricchezza, di potere e di opportunità). E su questo punto Sanders gode di un vantaggio innegabile. Anzitutto ha deciso di finanziare la propria campagna con il contributo dei suoi elettori (in media 27 dollari) e non sui finanziamenti milionari di imprenditori, gruppi industriali, lobbies ecc. In questo modo può pretendere a giusto titolo di non dover niente a nessuno (o molto poco a moltissimi) e di non essere condizionato nelle proprie scelte da interessi particolari.

Una volta dimostrato di essere libero dal potere delle lobbies (che gli conferisce una certa credibilità nelle proposte redistributive che avanza), Sanders ha indicato che i suoi programmi faro (assicurazione medica universale, investimenti in infrastrutture, iscrizione gratuita all’università) saranno finanziati dall’aumento dalle entrate grazie ad una più forte crescita (ma i calcoli effettuati sono sbagliati) e attraverso una più forte imposizione dei redditi più elevati (il top 1% contro cui era insorto il movimento Occupy Wall Street).

Tuttavia, la riduzione delle diseguaglianze non passa solo attraverso una più forte imposizione dei redditi più elevati, ma anche attraverso un aumento dei salari. Il salario minimo orario dovrebbe essere portato gradualmente a 15 dollari. Più importante ancora, per Sanders occorre creare le condizioni affinché i salari medi e medio-bassi, in particolare nel settore manifatturiero, possano aumentare e questo richiede un profondo ripensamento delle politiche commerciali perseguite dagli Stati Uniti. Egli considera che gli accordi di libero scambio stabiliti dagli Stati Uniti a partire dagli anni Novanta (Nafta in primis) si sono rivelati “un disastro per il lavoratore americano” e per questo è contrario alla ratifica degli accordi di libero scambio come la Transpacific Trade Partnership (Tpp). Politiche più protezionistiche e misure contro la delocalizzazione produttiva favorirebbero invece la reindustrializzazione degli Stati Uniti, un innalzamento dei salari nel settore manifatturiero e la creazione di una più solida e fiduciosa classe media.

Questi temi sono risultati fortemente popolari in una parte della base democratica e ancor di più tra gli indipendenti in Stati a forte presenza operaia (o che ne avevano una nel passato), i giovani e i membri delle classi medio-alte che considerano che la crisi attuale ha prodotto un’ulteriore concentrazione di ricchezza e potere all’apice della piramide sociale statunitense.

L’inaspettato successo di Sanders rappresenta un’opportunità e un rischio per il Partito democratico e la sua probabile candidata alla presidenziali, Hillary Clinton. Senza Sanders, le primarie democratiche si sarebbero rivelate certamente una passeggiata per Hillary, che però non sarebbe riuscita ad individuare alcune importanti debolezze e cercare di porvi rimedio. Il confronto (e scontro) con Sanders ha mostrato che Clinton ha un problema nel suscitare entusiasmo per la sua candidatura, che la sua innegabile competenza e conoscenza delle questioni interne ed internazionali, se non sufficientemente sostenute da una visione ed un progetto politico, non bastano a renderla the best candidate for the job. Ha anche mostrato che la possente macchina da guerra creata per vincere le elezioni (finanziata da ricche donazioni ed appoggiata da Super-Pac milionari) può rivelarsi un boomerang se l’avversario riesce a fare della rivolta contro l’establishment e i poteri forti il tema centrale della contesa.

Tutti problemi, questi, non evidenti all’inizio della campagna elettorale; il fatto che siano emersi a questo stadio consente a Hillary Clinton di avere tempo sufficiente per affrontarli e di non ritrovarsi di fronte a cattive sorprese al momento della sfida presidenziale col candidato repubblicano. Inoltre, facendo proprie o dando più enfasi ad alcune tematiche al centro della campagna di Sanders, Clinton può sperare non solo di avere l’endorsement di Sanders, ma anche di veder trasferito su di sé una parte dell’entusiasmo che ha caratterizzato la campagna di Bernie.

Tuttavia il successo di Sanders presenta anche un rischio, su una doppia dimensione. Nel breve periodo, alcune delle critiche di Sanders hanno danneggiato l’immagine della candidata democratica. Il discorso fatto dalla Clinton a Goldman Sachs qualche anno fa per un compenso di 250.000 dollari (su cui Sanders ritorna in ogni discorso e intervento) ha rafforzato in molti l’idea di una collusione tra Hillary e Wall Street. Di conseguenza, diversi potenziali elettori democratici temono che, se eletta, non andrà contro gli interessi della grande industria e finanza, mentre invece è forte la richiesta di avere un presidente che stia dalla parte di Main Street e non di Wall Street. Tutto questo rafforza ulteriormente una percezione già diffusa tra il pubblico americano, secondo cui l’ambizione personale sia il fattore trainante della candidatura della Clinton. Questo può condurre una parte dell’elettorato mobilitato da Sanders a ritirarsi nell’astensione o, in qualche caso, a votare per Donald Trump.

Vi è poi una seconda dimensione del rischio, legata a come Hillary Clinton, se verrà eletta presidente, interiorizzerà e farà propri alcuni dei temi portanti della campagna di Sanders. La questione centrale è come affronterà il tema delle diseguaglianze. Vi sono diverse combinazioni possibili e i loro esiti possono essere assai diversi. Se Hillary finirà per scegliere politiche commerciali che rigettano gli accordi di libero scambio con l’Asia e l’Europa (come sembra essere il caso al momento, poiché si è dichiarata contro la ratificazione della Tpp) e, nel contempo, sotto pressione da parte repubblicana, opterà per politiche fiscali più restrittive, ci si può aspettare che il policy mix adottato produrrà effetti molto limitati sulla dinamica salariale e le diseguaglianze, aumenterà l’incertezza economica internazionale e lascerà la crescita anemica.

La buona notizia è che esiste anche una combinazione molto più benigna, che può nel contempo far proprie alcune delle priorità dell’elettorato sandersiano, senza per questo aver ripercussioni negative sulla crescita o creare tensioni e incertezze a livello internazionale. Essa consiste nella continuazione e nell’approfondimento delle politiche messe in cantiere da Obama nel corso dei suoi due mandati. La realizzazione ed ulteriore estensione di Obamacare ha importanti effetti redistributivi. Al momento sono ancora poco visibili, perché è entrata in vigore da poco, ma diventeranno via via più evidenti. Una politica fiscale moderatamente espansiva, con investimenti nelle infrastrutture e nella ricerca e sviluppo, può contribuire a stimolare gli investimenti e crescita. Misure volte a rafforzare il potere contrattuale dei lavoratori, già iniziate sotto Obama, possono avere un impatto molto più positivo sui salari di un improbabile ed illusoria reindustrializzazione dovuta a politiche commerciali più protezionistiche.

Laddove Hillary potrebbe fare molto più di quanto Obama sia riuscito a realizzare è nel ridurre il ruolo giocato dalle lobbies nei processi decisionali. Su questo le aspettative sono piuttosto basse, perché Hillary è veramente una Washington insider. Tuttavia proprio per questo potrebbe sorprendere tutti, agendo con decisone e facendo proprie alcune delle proposte di Sanders. Se questo avvenisse, la democrazia statunitense non potrebbe che trarne giovamento.

In fin dei conti, il meglio che gli Stati Uniti possono sperare se eleggeranno Hillary Clinton è di avere un terzo mandato per le politiche – certo aggiornate e corrette – di Obama.

 

 

Nota: Il programma economico di Sanders è stato inizialmente quantificato da Gerald Friedman, secondo il quale, se il programma di Sanders fosse applicato, la crescita statunitense passerebbe dalla attuale media annuale del 2,1% a una media del 5,3%. Dopo un aumento iniziale del deficit pubblico, l’accelerazione della crescita condurrebbe negli anni successivi a un significativo miglioramento delle finanze pubbliche statunitensi. Pur non essendo un documento ufficiale della campagna di Sanders, l’analisi è stata lodata e fatta propria dall’entourage del candidato. La quantificazione è stata però fortemente criticata da quattro ex presidenti del Council of Economic Advisers sotto Obama e Clinton, che in una lettera aperta a Sanders e Friedman hanno fatto notare che i numeri forniti non sono sostenuti da alcuna evidenza economica e danneggiano la credibilità e reputazione del Partito democratico in campo economico. Cristina e David Romer hanno poi analizzato in dettaglio le proposte di Sanders e sono giunti alle stesse conclusioni. Conclusioni sono state a loro volta confermate da Justin Wolfer e Paul Krugman.