Durante tutta la Prima Repubblica, l’Emilia-Romagna, la Toscana, l’Umbria e buona parte delle Marche hanno rappresentato per il Partito comunista italiano roccaforti elettorali pressoché inespugnabili. Anche dopo il crollo del muro di Berlino e la scomparsa dell’Unione Sovietica, queste regioni hanno garantito ai partiti eredi del Pci un forte e stabile bacino di consenso elettorale. Tutt’al più, gli sfidanti di centrodestra riuscivano a penetrare ai margini di quella che un tempo veniva chiamata “la subcultura rossa dell’Italia di mezzo” (v. F. Ramella, Cuore rosso?, Donzelli, 2005). Questo almeno fino alla grande recessione del 2008-13, che ha rappresentato anche su questo aspetto un punto di svolta. Nelle elezioni successive, infatti, il Partito democratico ha registrato dei forti arretramenti, perdendo il controllo anche nelle aree centrali di queste regioni. Nelle politiche del 2018 in Emilia-Romagna, nelle Marche e in Umbria la coalizione di centrodestra ha prevalso su quella di centrosinistra e il Movimento 5 Stelle è diventato il primo partito sorpassando il Pd (v. F. Ramella, L’atrofia del cuore rosso d’Italia, “il Mulino”, n. 2/2018).

Sullo sfondo di un simile scenario, quelle appena concluse appaiono come elezioni amministrative tutto sommato marginali. Guardiamo i dati principali che emergono dal risultato elettorale in queste regioni. Intanto occorre precisare che si è trattato di un test limitato a 18 comuni superiori (con più di 15 mila abitanti) e altri 55 inferiori, che ha interessato poco più di un milione di abitanti, pari al 10,7% della popolazione complessiva. Inoltre, le consultazioni si sono svolte in zone periferiche rispetto al “cuore” della (ex)subcultura rossa. Le città di Parma e Piacenza, le meno rappresentative del cosiddetto “modello emiliano” e le più esposte al vento del nord ma che forse, proprio per questo, assumono una valenza particolare in queste elezioni. Alcune enclaves politiche bianche – dove prevaleva la Dc – collocate nelle zone centro-meridionali delle Marche e nella lucchesia toscana. Ciò detto, chissà che proprio dai margini di questa Italia di mezzo non possano arrivare i segnali di una possibile reconquista.

Gli esiti delle elezioni, in effetti, sono di un certo interesse. Il primo punto rilevante è che il centrosinistra ha avuto un discreto successo. Nella precedente tornata amministrativa era riuscito a fare eleggere solo 6 sindaci nei comuni superiori. Stavolta se ne aggiudica 6 al primo turno e altri 4 al secondo turno. Perdipiù si tratta di comuni importanti, come Parma e Piacenza, che danno il segno a questa consultazione e più che compensano la perdita di Lucca dove, al ballottaggio, un candidato civico supportato dal centrodestra è prevalso di un soffio (grazie anche ad un problematico apparentamento a destra, con la lista presentata da Casa Pound). In Emilia il recupero è senza ombre: il centrosinistra riporta “a casa” tutti e 4 i comuni maggiori in cui si è votato. Nelle altre regioni, al contrario, le indicazioni sono più ambivalenti. In Toscana le coalizioni a guida Pd conquistano 3 dei 5 comuni maggiori ma non si aggiudicano i due capoluoghi più significativi: Pistoia e Lucca. In Umbria, Narni è del centrosinistra ma Todi del centrodestra. Nelle Marche, infine, il bottino risulta piuttosto magro: i candidati “progressisti” si aggiudicano solo 2 dei 7 comuni superiori subendo, oltre alla concorrenza del centro-destra (che vince in 2 comuni), anche quella delle liste civiche (che riescono a far eleggere 3 primi cittadini).

Il secondo punto riguarda i progressi del centrosinistra che avanza di 4 punti percentuali e, mediamente, prevale sul centrodestra di circa 7. Quest’ultimo, tuttavia, segna a sua volta un forte balzo in avanti (+12%) grazie anche all’assenza dei 5 Stelle in molti comuni. Il Movimento, infatti, ha presentato propri candidati sindaci solo in 4 città, mentre nel 2017 erano state 17 (con 2 sindaci eletti al ballottaggio a Carrara e Fabriano).

Bisogna riaccreditare l’idea di futuro in un Paese di anziani; promuovere l’innovazione in un’economia in declino da oltre vent’anni; discutere di equità e redistribuzione in una società tra le più diseguali d’Europa

Il terzo elemento rilevante, quindi, è la quasi scomparsa di un terzo polo sovra-comunale. Fin dalle elezioni regionali del 2010 in Emilia-Romagna, e ancor più nelle politiche del 2013 e del 2018, il Movimento 5 Stelle ha rappresentato un insidioso competitor soprattutto per il centro-sinistra. È vero che nelle amministrative il suo appeal è sempre stato inferiore, ma nel 2017 aveva comunque raccolto l’11% dei consensi. Stavolta, invece, le sue liste erano presenti solo in 8 comuni superiori - nella metà dei casi in coalizione con il Pd – ottenendo un magro 3%.

Il quarto punto, infine, riguarda il Partito democratico, che ha segnato un -4% rispetto alla tornata precedente. Con un calo di voti ancora più marcato, vista l’ulteriore avanzata dell’astensionismo. Il Pd ottiene risultati migliori laddove il Movimento non si presenta (29,4%) oppure entra nella coalizione di centrosinistra (24,1%). Va peggio invece nei 4 comuni dove i 5 Stelle hanno propri candidati-sindaci (13,8%).

Quali “note a margine” si possono trarre da queste consultazioni? Pur tenendo conto che si tratta di un test limitato, esce in qualche modo confermato il trend di ripresa del centrosinistra manifestatosi a partire dalle regionali del 2020 in Emilia-Romagna (v. A. Bosco e F. Ramella, Dopo la grande paura, “il Mulino”, n1/2020). Per il Pd si tratta di un messaggio incoraggiante da un duplice punto . di vista. 1) Perché interessa una regione particolarmente dinamica; 2) perché non è più interpretabile in termini resistenziali, ovvero come semplice retaggio subculturale. Le vittorie registrate a Parma e Piacenza – da sempre sensibili agli umori provenienti dalle Lombardia – sembrano indicare che il “campo-largo” di cui parla Letta può rappresentare una proposta competitiva anche nelle regioni del Nord.

Del resto, se una lezione l’Italia di mezzo può trasmettere in chiave nazionale è l’attenzione per il buongoverno. In queste regioni, infatti, il Pci presentò sempre il volto di un partito pragmatico, capace di offrire stabilità politica ed efficienza amministrativa. Come è noto, un pezzo importante di questo disegno era rappresentato dalla politica delle alleanze con i ceti medi produttivi, praticata a livello locale e consacrata sul piano della strategia nazionale dallo stesso Togliatti. Oggi questa esperienza deve tornare al centro della riflessione per chi intenda candidarsi a governare l’Italia in una giuntura critica irripetibile come quella attuale. Un nuovo “patto per lo sviluppo e l’occupazione” è essenziale per superare lo short-termism delle proposte politico-demagogiche. Così come è essenziale per tenere insieme il rilancio della crescita con l’inclusione sociale e la sostenibilità ambientale.

A livello nazionale, in una società più complessa e frammentata di un tempo, il “campo largo” di per sé non è sufficiente per prevalere sulle sirene populiste

E tuttavia a livello nazionale, in una società più complessa e frammentata di un tempo, ciò non può bastare al “campo largo” per prevalere sulle sirene populiste. Anche a questo proposito, però, l’esperienza storica della (ex)subcultura rossa può tornare utile. Nell’Italia di mezzo, infatti, il Pci aveva elaborato una cultura riformista, anziché classista, proprio perché si trovava a governare una società particolarmente articolata. Doveva rappresentare i ceti popolari delle città e delle campagne, insieme ad una variegata schiera di artigiani, commercianti e imprenditori e riusciva a farlo solo mitigando gli squilibri della crescita economica con un solido Welfare sociale. Cosa significa questo per l’oggi? Che tanto più la coalizione di centrosinistra risulta eterogenea e frammentata, tanto più diventa necessaria una forte proposta riformista per la guida del Paese.

La sfida è formidabile. Perché bisogna riaccreditare l’idea di futuro in un Paese di anziani; promuovere l’innovazione in un’economia in declino da oltre vent’anni; discutere di equità e redistribuzione in una società tra le più diseguali d’Europa; parlare ai giovani e ai ceti meno avvantaggiati risultando però credibili anche tra le categorie produttive. Si tratta, insomma, di elaborare un progetto per una via alta allo sviluppo, usando una narrazione inclusiva e accattivante. Facile da dire, straordinariamente difficile da fare. Ma questa è la sfida. E io credo che la possa raccogliere solo un centrosinistra ad egemonia riformista.